Harem Suare è, con tutta probabilità, il film più intimamente femminile del regista turco Ferzan Ozpetek. Parla soprattutto di donne, sì, ma più in generale di persone che cercano di vivere in un contesto di prigionia.
Una pellicola che racconta il passaggio da una condizione di schiavitù a una condizione di libertà. Una libertà che, per coloro che saranno liberati, risulterà difficile da gestire.
Harem Suare, la trama
Turchia, 1908. Un gruppo di donne condivide la vita nell’harem del sultano Abdulhamit II, tra rivalità e momenti di felicità. Finché non cade l’impero ottomano e la vita di tutti gli abitanti dell’harem cambia radicalmente.
Parallelamente, negli anni Quaranta/Cinquanta, al tavolino di un bar, una donna racconta ad una giovane la propria vita di favorita all’interno di quello stesso harem.
La condizione femminile: un parallelismo con Lanterne Rosse
Appare evidente che uno dei temi trattati da Ozpetek in questo film sia quello della condizione femminile. La condizione delle donne vendute dalle proprie famiglie al sultano, che come unica prospettiva di vita hanno quella di provare a diventare le sue favorite.
Una situazione che, debitamente trasposta in un altro Paese e in un’altra cultura, ricorda molto quella delle mogli del film di Zhang Yimou Lanterne Rosse. Le dinamiche di solidarietà e al contempo di acerrima rivalità tra donne sono le stesse.
Se nel capolavoro di Yimou le donne erano mogli in una casa priva di uomini, in Harem Suare sono concubine che vivono in una casa in cui gli unici uomini ammessi sono eunuchi.
In entrambi i film, il signore è pressoché invisibile: in Lanterne Rosse non viene mai mostrato in volto, nel film di Ozpetek viene mostrato fugacemente e mai in compagnia delle concubine.
La presenza maschile del sultano è tanto evanescente quanto è preponderante e consolatoria quella degli eunuchi. Uomini che, seppure privati della loro virilità, sono ancora in grado di provare amore e desiderio. E possono aiutare le loro signore a scalare posizioni nella complessa gerarchia dell’harem.
Le donne come recluse
Le concubine sono condannate a vivere nel ristretto spazio domestico e a non uscire mai di casa, come le mogli del film di Yimou. Ma la loro vita è destinata a cambiare, e non necessariamente in meglio.
A parlarci della condizione delle donne dell’harem sono anche le eloquenti inquadrature dall’alto, che ce le mostrano soggiogate e controllate da un potere superiore.
Come in Lanterne Rosse, anche in Harem Suare le donne devono mettere in atto astuzie e stratagemmi per garantirsi una posizione di rilievo all’interno dell’harem. Talvolta ricorrendo a scorrettezze.
Il gioco dell’harem ha le sue regole: “Ricordatevi che qui dentro tre cose sono importanti: l’amore, il potere e la paura”. E se l’amore non è quello per il sultano che può essere solo “venerazione”, il potere, per una concubina, è garantito solo se si diventa la prossima validé: la madre del futuro sultano.
La dinamica è pressoché identica a quella di Lanterne Rosse, in cui le mogli fanno a gara per rimanere incinte del marito/padrone. Per dare alla luce preferibilmente un maschio. La storia è sempre la stessa: il potere di una donna risiede unicamente nel suo poter diventare madre.
Il potere della parola
Ma c’è un altro potere, che passa attraverso la parola. Uno dei temi più importanti di Harem Suare è il racconto: il racconto tra donne come passaggio di testimone tra generazioni e come condivisione di conoscenza. O come semplice espediente per passare il tempo, come nelle Mille e una notte e nel Decameron.
A prendere la parola, all’inizio del film, sarà la serva Gulfidan – interpretata dall’attrice-feticcio di Opzetek Serra Yilmaz – che racconterà alle donne la storia di una donna che racconta la propria storia. Il sistema a scatole cinesi coinvolge anche lo spettatore. Questi non sa se la storia nella storia che si sta raccontando sia inventata oppure no. E questo non ha poi tanta importanza.
Nella storia raccontata da Gulfidan prenderanno vita e corpo altre due donne: un’anziana signora (Lucia Bosé) e una giovane (Valeria Golino). Al tavolino di un bar, si scambieranno il racconto che è la vera materia del film: la storia di Safiyé e di come sia riuscita a diventare la favorita del sultano. Safiyé, come scopriremo presto, è l’identità passata del personaggio di Lucia Bosé.
Giovinezza e vecchiaia
E’ proprio l’incontro – confronto tra la signora e la giovane donna ad introdurre un altro tema rilevante di Harem Suare: il rapporto tra giovinezza e vecchiaia.
Due fasi della vita che sono legate indissolubilmente l’una all’altra, come ricorda Gulfidan introducendo il suo racconto: “Come il fuoco e l’acqua, come l’oscurità e la luce, come la notte e il giorno. Sono la giovinezza e la vecchiaia. Sembrano tanto differenti tra di loro, ma in realtà sono la stessa cosa: la giovinezza è il passato della vecchiaia, la vecchiaia è il futuro della giovinezza”. Safiyé/Lucia Bosé è il personaggio che le ha vissute entrambe e, giunta alla vecchiaia, può raccontarle entrambe.
La dicotomia tra le due fasi della vita è particolarmente rilevante soprattutto nel mondo a parte dell’harem: è costante la rivalità tra concubine più anziane e concubine più giovani. Una rivalità che può generare atti di grande crudeltà, incluso l’omicidio. Allo stesso tempo, le più anziane hanno anche il compito di guidare e consigliare le “sorelle” più giovani e inesperte.
Il destino di giovani e anziane è molto diverso: le giovani sono indirizzate a perfezionarsi per aspirare al rango di favorite, mentre le più anziane, finito il loro tempo, sono destinate a imbarcarsi e partire alla volta del cosiddetto Palazzo delle Lacrime. Palazzo delle Lacrime che ha una sua fondatezza storica: era destinato ad ospitato le concubine dopo la morte del loro sultano.
La fine di un’epoca
La vita nella prigione dorata dell’harem, come sappiamo, è destinata a finire: con la fine dell’impero ottomano, il sultano dovrà accettare l’avvento della repubblica, firmando la costituzione, e dire addio al mondo antico e sfarzoso del quale lui e i suoi predecessori si sono circondati per oltre 600 anni.
Il passaggio, come fa ben vedere Ozpetek, non è indolore: le donne, rimaste senza una casa e un ricco protettore, perdono un tetto, le loro ricche vesti e i gioielli. E, a ben guardare, perdono molto di più: il loro ruolo nel mondo.
Il loro destino è quello di venire rispedite al mittente, vale a dire le famiglie di origine, oppure di rimanere sole e obbligate a ricostruirsi un’esistenza senza lustrini.
La loro liberazione dalla prigione dorata dell’harem le riconsegna al silenzio e le condanna alla perdita di uno status del quale, seppure schiave, hanno potuto godere all’interno di quell’ambiente: non schiave e prostitute ma donne del sultano.
Lo stesso senso di smarrimento e di perdita del proprio ruolo, e in modo più forte, è vissuto dagli eunuchi, che si ritrovano nel mondo reale a doversi confrontare con gli altri uomini cui la virilità non è mai stata negata. Ed è qui che le prime vittime del sistema del sultanato ottomano, le concubine e i loro servitori, vivranno il loro momento più buio.
Il bagno turco, tra Ozpetek e Ingres
Nelle scene ambientate nel bagno turco, nel quale le signore e le serve condividono lo spazio e la nudità, è palese l’ispirazione pittorica: impossibile non pensare al Bagno turco rappresentato da Jean-Auguste-Dominique Ingres nel 1862: i corpi candidi, lascivi e totalmente nudi delle signore, contrapposti a quelli scuri e vestiti dalla vita in giù delle schiave.
Una scena carica di sensualità, che in Harem Suare ha anche degli spettatori segreti: non solo gli spettatori del film, ma anche gli eunuchi, gli unici ammessi perché privati della loro virilità.
Harem Suare, il cast
Il cast di Harem Suare è bene assortito, tra interpreti turchi, italiani, francesi e belgi.
In pole position, come già accennato, un’attrice immancabile in qualsiasi film di Ferzan Ozpetek: la connazionale Serra Yilmaz, che qui veste i panni orientaleggianti della serva Gulfidan. E’ lei a rivestire il fondamentale ruolo di narratrice, avendo il potere di tessere le trame del racconto e di tenere insieme le storie.
Protagonista di queste storie, in due età diverse, è la concubina favorita del sultano Safiyé, che nella storia ha origini italiane: da giovane è interpretata dall’attrice belga Marie Gillain, da anziana è intepretata dall’italianissima Lucia Bosé.
Gillain è conosciuta in Italia per aver preso parte a due film italiani, Le affinità elettive dei Fratelli Taviani e La cena di Ettore Scola, al fianco di Vittorio Gassman. A livello internazionale ha interpretato anche Adrienne, sorella di Coco Chanel in Coco Avant Chanel di Anne Fontaine (2009). E’ nota anche per essere stata la testimonial per una campagna pubblicitaria di Lancome.
Bosé, scomparsa nel 2020, ha avuto una lunga e fortunata carriera cinematografica, iniziata con la vittoria del concorso di Miss Italia nel 1947. Nel 1950 era già protagonista di Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis. E’ apparsa in film di grandi maestri del cinema italiano e internazionale come Antonioni, Bunuel, Fellini (nel Satyricon, ndr), Cavagni, Bolognini. Harem Suare è stato il terzultimo film al quale ha preso parte come attrice.
Ad aiutare Safiyé nella sua scalata al potere, sarà l’eunuco Nadir, cui dà vita il francese Alex Descas. La carriera di Descas inizia nel lontano 1984, in un film del cineasta italo-francese Sergio Gobbi, Asphalt Warriors. Il francese appare anche in due film culto di Jim Jarmusch: Coffee and Cigarettes (2003) e The Limits of Control (2009).
Nel ruolo del sultano troviamo Nihat Haluk Bilginer: un attore turco di cinema e teatro che ha lavorato anche all’estero. Ricordiamo le sue collaborazioni con registe quali Margarethe Von Trotta, Mira Nair e persino Madonna (in W.E. – Edward e Wallis, film del 2017).
Harem Suare, le conclusioni
Harem Suare è il film per il quale il tempo – dalla sua uscita sono passati ormai 24 anni – non sembra essere passato. Ha tutti i pregi dei film di Ozpetek: l’amore per il femminile, la fotografia curata, il continuo incontro fusionale tra Italia e Turchia.
Alle prese con un film di carattere marcatamente “storico”, il regista riesce a raccontare le dinamiche di potere in modo intimo e sensuale, pervaso di malinconia e nostalgia per il passato.
Il film si inserisce nel solco della tradizione del racconto alla Mille e una notte per incantare lo spettatore e condurlo nella Turchia di inizio Novecento. In un momento di cambiamenti epocali. L’amore che lui racconta non è mai melenso, ma perfettamente funzionale alla storia. Una storia dalla quale gli uomini sono quasi totalmente estromessi.
Avvolgente.