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Ozpetek, Istanbul Trilogy: verità e coraggio si scoprono a tavola

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Quello di Ferzan Ozpetek è un ritorno alla sua Turchia: accade nell’Istanbul Trilogy, fresco di uscita su Netflix.

Un ritorno già intrapreso nel 2017, quando uscì Rosso Istanbul: un film girato in Turchia, in lingua turca e con un cast totalmente turco.

Il processo di elaborazione esperienziale portato avanti dal regista arriva qui a un picco di maturità e di nostalgia insieme.

Questa trilogia parla profondamente di Ozpetek, della sua vita, delle sue emozioni e delle persone che lo hanno circondato.
Ma veniamo ai singoli corti.

Istanbul Trilogy di Ferzan Ozpetek, le trame dei singoli episodi

Partiamo da Meze: una ragazza decide di sposarsi con un uomo appena conosciuto, ma le cose non andranno come lei ha previsto. Basteranno l’amore delle zie e delle amiche, nonché una buona dose di deliziosi mezé (antipasti turchi, ndr) per farle recuperare il sorriso e la voglia di futuro.

Il secondo film a comporre la trilogia, Musica, racconta la storia dell’incontro di tre bambini, uniti dalla musica. Lo scambio di un dono porterà loro conseguenze inaspettate nel futuro.

Il secondo corto della trilogia, Muhabbet, parla dell’incontro di un ragazzo con tutte le persone che si è lasciato alle spalle, non ha mai potuto amare o ha perso. Un viaggio onirico da Roma a una non precisata città della costa turca.

Istanbul Trilogy, Meze: quando la sorellanza e il buon cibo fanno superare qualsiasi avversità

Il tema principale del corto di Ozpetek sono le speranze disattese, di fronte alla crudezza e alla realtà della vita.

La giovane protagonista (Ahsen Eroglu) decide di sposare un ragazzo sebbene lo conosca appena, contro il parere della zia (Serra Yilmaz). La sua scelta si rivelerà azzardata, ma non c’è ferita che l’amore delle proprie amiche non possa emendare: sarà così che un pranzo di nozze si trasformerà in un pranzo di famiglia.

Al centro del desco, i deliziosi antipasti preparati dalle mani della zia. Tanta ironia, risate e musica per esorcizzare il difficile momento. E basta la celebre canzone Aldırma Deli Gönlüm, che animerà anche i titoli di coda nella versione di Sertab Erener, a ribadire che gli amori si superano e lasciano tracce esigue su cui li ha vissuti e perduti.

Con un brindisi si dà un colpo di spugna alla tristezza: “Ci troviamo sull’orlo di tutte le cose possibili”, “Un brindisi alla nuova vita e ai possibili nuovi amori”.

In questo episodio ritroviamo due personaggi cari a Ozpetek: le due “zie zitelle”, simili a quelle che compaiono nel libro-film semi autobiografico Rosso Istanbul.

Istanbul Trilogy, Music: la musica come continuum tra passato e presente

La musica come macchina del tempo: questo è il tema centrale del secondo episodio della trilogia di Ozpetek.

In questo episodio la musica consente il contatto tra due mondi apparentemente distanti: quello di due bambini di modesta estrazione e di un bambino in viaggio per un altro Paese. Voce e fisarmonica li uniranno per sempre, grazie allo scambio di un oggetto che in futuro fungerà da madeleine proustiana.

Il contatto, seppure breve e fugace, influenzerà per sempre la vita dei protagonisti. Il regista pare dire questo: non c’è scambio umano che sia realmente privo di conseguenze. E un gesto gentile può innescare rivoluzioni nelle vite altrui. Così, anche un semplice pesce rosso (kırmızı balık) in una sfera di vetro può fare magie.

Questo corto ci ricorda anche il potere degli oggetti, che possono restituirci ciò che siamo stati e ciò che abbiamo dimenticato di essere. Riportandoci all’infanzia e ai suoi incanti.
Alla fine del corto, la scena si riempie di musica, con la popolare canzone Firtina (Tempesta).

Istanbul Trilogy, Muhabbet: “Nella vita di tutti c’è qualcuno a cui non sono riusciti a dare l’addio nel cuore”

Ed eccolo: il corto della trilogia che sembra parlare di più di Ferzan Ozpetek. Della sua vita in Italia, ormai dal lontano 1976. Del suo essere, a tutti gli effetti, un turco naturalizzato italiano. Dell’importanza di non dimenticare le proprie radici. Di quella speciale malinconia nostalgica che possono nutrire solo coloro che sono emigrati.

Attraverso questo corto, il regista parla della memoria e dell’impossibilità di separarsi davvero da chi si è realmente amato.

Il corto si svolge, supponiamo, in un sogno del protagonista Selim (Kubilay Aka). Il ragazzo, dopo aver vagato per il centro di Roma, si ritrova sulla costa turca a condividere un tavolo con tutte le persone che ha perduto nella sua vita: i suoi amici, rimasti nella madrepatria, inclusa una ragazza che lo ha sempre amato, i suoi genitori e il ragazzo con il quale ha avuto una relazione d’amore.

A tutti i tavoli si siederà, condividerà vino, raki e chiacchiere profonde sul passato condiviso: le stesse chiacchiere che danno il nome a questo corto, Muhabbet (conversazione).

Tutte le verità vengono alla luce e, contemporaneamente, vengono accettate e accolte.
Guardando questo corto non si può non pensare al lutto vissuto recentemente dal regista stesso, che ha perso la madre pochi anni fa.

A sancire il legame di Selim con la morte è anche il corvo tatuato sul suo braccio e più volte mostrato nell’inquadratura: sul piano simbolico, si tratta di un animale messaggero, che ha uno stretto legame con la dimensione dell’aldilà.

Un animale importante, che nella mitologia norrena è l’uccello sacro di Odino. Pare che il dio, ogni mattina, liberasse i suoi due corvi, Huginn (pensiero) e Muninn (memoria) perché gli portassero notizie del mondo.

La natura di Selim – e, forse, dello stesso Ozpetek – è quella di un moderno Ulisse, afflitto dalla nostalgia ma incapace di mettere radici, capace solo di essere altrove. Come dice la ragazza che è innamorata da sempre di lui: “Lui è così: arriva e se ne va, come una tempesta”. Ma il nostos (ritorno) a Itaca/Istanbul sarà fondamentale per la sua crescita emotiva.

Ozpetek, emigrato da Istanbul a Roma

Quella di Ozpetek è un’esperienza di emigrazione felice, di totale immersione nel Paese e nella cultura che lo ha ospitato. Come rivelò in un’intervista a Repubblica nel 2020: “Mi ero trasferito per completare gli studi, iscrivendomi alla Facoltà di Lettere de La Sapienza, e cercare di realizzare il sogno del cinema. Avevo scelto di vivere in un paese perché mi piaceva. Un anno dopo il mio arrivo a Roma, mia madre venne a farmi visita e si meravigliò di quanto mi fossi già integrato. Mi disse: non solo parli come loro, ma ti muovi e mangi da romano”.

Tuttavia, il regista non ha mai dimenticato le proprie origini: questo è ciò che lo ha spinto a girare questa trilogia. Che è allo stesso tempo una celebrazione di tre aspetti cardine nella cultura turca (il cibo, la musica e le conversazioni) e un excursus nel proprio retaggio.

Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek (2001)

La tavola, un luogo nel quale non si può mentire

Se c’è un trait d’union di questi tre brevi film questo è la tavola: il luogo dove non si celebrano solo la convivialità, la gioia della vita e la memoria. Ci si celebrano soprattutto la verità e il coraggio.

Un luogo dell’anima per Ozpetek, che in un’intervista del 2022 al Corriere della Sera chiarì quale grande importanza avesse per lui: “È intorno alla tavola che la mia macchina da presa riesce a cogliere l’autentico che alberga nelle persone, le loro rivelazioni, anche sessuali. Capita allora che, di ciak in ciak, si rida, si pianga, ci si scapigli, si solidarizzi, si nasca, si muoia. In una frase: ci si metta a nudo. Con una onestà, una intensità, ma soprattutto una profondità rara”.

In effetti, la tavola rappresenta un elemento cardine perlomeno in altri due film del regista turco: Le fate ignoranti (2001) e Mine vaganti (2010). Nel primo, la protagonista Antonia scoprirà la verità su suo marito seduta attorno a un tavolo con i suoi amici; nel secondo, Tommaso deciderà di fare coming out a tavola durante una cena di famiglia. Non manca nemmeno in opere più recenti, come La dea fortuna (2019).

Il cibo, per Ozpetek, è fondamentale almeno quanto la tavola: “Perché il cibo è amore: o ci si abbandona completamente o vi si rinuncia. Se lo si vuol gustare appieno non esiste una via di mezzo. Io dal cibo traggo ispirazione”.

Mine Vaganti di Ferzan Opzetek (2010)

L’importanza centrale del cibo per Ozpetek

Nell’Istanbul Trilogy, il cibo è sia un elemento consolatorio che un incentivo a mostrarsi per quello che si è e a condividere le proprie emozioni.

La cucina è quella della tradizione turca, la cucina dell’infanzia dello stesso Ozpetek: i deliziosi mezé, tra i quali vengono rievocati piatti deliziosi come pincur, lakerda, diblé di fagioli, haydari, tarator e kuru cacik. E, ovviamente, gli immancabili involtini di foglia di vite (sarma).

Centrale è anche il raki, una grappa di origine turca che viene consumato ai pasti e bevuto in generose quantità nella trilogia. Centrale soprattutto nell’ultimo corto, Muhabbet: è il raki a innaffiare le conversazioni cruciali del protagonista con i suoi cari.

La centralità del cibo è ricorrente, al cinema: si pensi al tavolo rotondo imbandito per il pranzo della domenica in Mangiare bere uomo donna (1994) di Ang Lee, che nel film cinese diventa il luogo di riconciliazione e di comunicazione tra un padre e le sue tre figlie.

Il cibo assume un’importanza ugualmente centrale anche nel film di un altro regista di origini turche: Soul Kitchen (2009) di Fatih Akın. E come non ricordare il suo ruolo di catalizzatore di emozioni in Come l’acqua per il cioccolato (1992) di Alfonso Arau?

L’Istanbul Trilogy di Ferzan Ozpetek: le conclusioni

L’opera di Ferzan Ozpetek, permeata di nostalgia, memoria e affetto per la propria madrepatria, riprende le tematiche care al regista e le affronta nuovamente con rinnovata maturità.

Disseminando i suoi tre corti di pezzettini della propria esperienza autobiografica, come è sua usanza. Le emozioni che suscitano le brevi storie qui raccontate lasciano un malinconico sorriso sul viso degli spettatori. E il desiderio impellente di sedersi alla tavola imbandita di un pranzo di famiglia pronti, finalmente, a raccontarsi per chi sono davvero.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

L’opera di Ferzan Ozpetek, permeata di nostalgia, memoria e affetto per la propria madrepatria, riprende le tematiche care al regista e le affronta nuovamente con rinnovata maturità. Disseminando i suoi tre corti di pezzettini della propria esperienza autobiografica, come è sua usanza. Le emozioni che suscitano le brevi storie qui raccontate lasciano un malinconico sorriso sul viso degli spettatori. E il desiderio impellente di sedersi alla tavola imbandita di un pranzo di famiglia pronti, finalmente, a raccontarsi per chi sono davvero.
Redazione
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