Si chiama Magic Castle Hotel ed è un edifico a due piani, con ballatoio esterno, ampio parcheggio, accesso su una grande strada a scorrimento veloce, scale esterne tra pianterreno e primo piano e mura fortemente, intensamente lilla: contiene una schiera di camere a trentacinque dollari a notte ed ospita quella parte di Florida che non si trova lì in vacanza, né in luna di miele, che non desidera andare al vicino Walt Disney Resort di Orlando per scattarsi foto ricordo o per provare le ultime attrattive, che non deve né può fare la spesa nei megacentri commerciali tematici ed a-tematici disseminati nelle ampie aree di servizio di zona dove si sdogana dalla prima necessità al gadget souvenir. No.
Al Magic Castel Hotel ci passano per caso solo turisti che han sbagliato destinazione, taxi in transito, pattuglie della polizia a controllare la sicurezza di resort, alberghi, fast food e negozi; ma ci vive un’altra tipologia di persone: gli ultimi della Florida, quelli che lavorano attorno al paradiso di spensieratezza che viene in mente a chi non è del luogo al primo accenno di questa regione e che non ne condividono la tranquillità, lo svago, i bei momenti. Già.
Il Magic Castle è un motel da pochi spicci, che da fuori sembra un villino delle principesse Disney, mentre dentro è un formicaio di disperati che sopravvive come può; lavori intermittenti al limite della legalità, umili impieghi, con stipendi da fame, sostengono nuclei monofamiliari, spesso femminili, con figli, cibo spazzatura, tv costante, un bagno, un letto in poco più di 20 metri quadrati.
Li sorveglia Bobby (Willem Dafoe, candidato agli Oscar 2017 come miglior attore non protagonista) manager dell’edificio, responsabile degli affari e della condotta dei suoi clienti: uomo pragmatico, energico, dalla vista lunga e dal cuore buono, abituato a conoscere e riconoscere le situazioni umane che gli si parano di fronte nell’angolo buio di questa finta oasi; le sue giornate passano dal fare la voce grossa per chiedere il rispetto delle regole, ad aiutare chi quelle stesse regole le ha infrante per necessità, sfinimento o solitudine; pagamenti in ritardo, sporcizia, manutenzione, tipi sospetti troppo vicini alle donne, tipi sospetti troppo vicini ai bambini; Bobby controlla ed aiuta fin dove può.
Ma c’è Halley (Bria Vinaite), che gli dà più da pensare: sfacciata, attaccabrighe, cronicamente al verde, licenziata da uno strip club, si arrangia per pagare la sua stanza, svendendo improbabili profumi di marca, rubacchiando qua e là, chiedendo prestiti, scroccando cibo, a volte prostituendosi, con il pensiero fisso di sfuggire agli assistenti sociali che vorrebbero privarla della sua bambina, l’unica cosa cui si sente veramente legata.
Sua figlia infatti ha sei anni, si chiama Moonee (Brooklynn Prince, miglior giovane interprete ai Critic Choice Award 2018) ed è la peste perfetta: protagonista del film, imperversa nel Magic Castle, ma anche nei motel vicini, correndo tra le mura, sulle scale e nei prati fin troppo verdi che costeggiano gli stabili; adora i gelati, non va a scuola, grida sguiaiata alle finestre e in strada, tormenta Bobby con le sue ingenue monellerie, è il capopirata della sua banda di piccoli amici combina guai; con i coetanei Scooty e Jancey, guida ed immagina avventure ai confini della felicità metropolitana, con il sole o con la pioggia, raccontandosi il suo tempo come un gioco, lontano dalle difficoltà e dalle ombre degli adulti.
Fino a quando il gioco a vivere di bambina e quello a sopravvivere della madre riusciranno a stare in piedi?
Nuova panoramica di emarginazione sociale per il regista Sean Baker, pellegrino in viaggio tra le facce nascoste del mito americano, dotato di interesse atipico, impegno personale, onestà ed originalità rare; dopo aver attraversato con le sue tribù di esseri umani da molti dimenticati Los Angeles (Tangerine 2015), San Fernando Valley( Starlet 2012), il Bronx (A contract with God 2010) e Broadway (Prince of Broadway 2008), sceglie per questo suo ultimo lavoro, decretato film dell’anno agli AFI Awards 2018, il limbo in pena che prolifica proprio alla frontiera del luogo che fabbrica la felicità, lo storico e leggendario parco giochi targato Walt Disney di Orlando in Florida, rifugio di vacanzieri benestanti, meta turistica consumistica e spassosa da esibire per testimoniare al mondo che la propria vita è innanzitutto divertimento.
Nel suo The Florida Project, titolo originale del film, c’è chi si fa selfie e spende millesettecento dollari per bracciali colorati con cui entrare nel mondo delle meraviglie, mentre a poche decine di metri ci sono madri ragazzine, nonne sole, mamme che fanno i papà, tatuate, spettinate, irresponsabili, rissose, con un piede fuori di casa ed uno dentro, un occhio fisso al cellulare ed un sorriso troppo generoso mai negato ai propri figli.
Si incrociano solitudini, fenomeni da baraccone, scarti di comunità, mele marce, che fanno più o meno la fame in stanzacce gettate in mezzo al nulla, nulla color rosa, verde, viola, giallo o blu, che ne dissimula la durezza; nulla architettato come dependance del business delle fiabe; nulla in cui si deve camminare a piedi sulle statali accanto a suv che sfrecciano per andare a fare la spesa o raggiungere il posto di lavoro; nulla in cui le marchette si fanno di nascosto sennò si perdono anche quelle quattro mattonelle al motel; nulla in cui non si regala niente a nessuno, ma i conti arrivano sempre puntuali; nulla a cui non si risparmiano tasse, prediche, divieti, minacce, imposizioni d’autorità, con scaltra discrezione per non rovinare la vacanza di nessuno.
Fortuna che i bambini sanno leggere i grandi più di quanto non accada a ruoli invertiti: Moonee, protagonista di spericolata fantasia ed incontrollabile energia, combatte e cavalca con la sua frenesia innocente le miserie che la circondano, si sente speciale e rende tale ogni cosa che tocca, eludendone il dramma, lei, che più di altri il dramma lo rischia a causa di una mamma più bimba di lei, sbandata, ma non cattiva.
Lei sa indovinare sempre quando un adulto sta per piangere, ne ha visti parecchi in questa condizione e la macchina da presa la insegue, la corteggia, la anticipa in un viaggio all’altezza delle sue spalle piccine e dei suoi occhi impuniti, in cui si costruisce e si decostruisce un universo artificiale senza baldorie né melodrammi.
I bambini sono probabilmente una delle cose più potenti che possono accadere in video, perciò lo sguardo narrativo affidato alle loro movenze scomposte, alla loro spontanea presenza cattura e fa riflettere con pungente efficacia.
Questa storia è l’atterraggio di una favola, una carambola dorata che si screpola lungo il tragitto, quando il reale delle cose, il limite dell’età adulta, il peso dell’indifferenza altrui e dell’impotenza dei vulnerabili aggrediscono i sei anni di bambina, lasciandoli senza parole per esprimersi, mettendoli in fuga, simbolica, disperata, alla ricerca del bello scomparso.
Una denuncia non denuncia, un reportage dalla fotografia pastello, uno sguardo critico, empatico, non pietistico, alla resistenza pura ed inconsapevole di queste tacitate periferie umane. Non a caso l’albero preferito da Moonee per i suoi giochi è un enorme tronco che pur da caduto, continua a crescere.
Un passo prima di diventare grandi si può ancora credere di non essere soli, ricercare con sfrontata animosità la contentezza “del poco e del niente”; poi no, è solo un errore. Non perdonabile.
Ma prima di andare ad ingrossare le fila degli infelici di prossima generazione, vittime della strategia americana del primato individuale, Baker ferma l’istante in cui delle proprie rovine si fa danza e sorriso in una fantastica maniera, regalando al mondo una comprensione maggiore e più utile di tanto supponente ciarpame quotidiano.