“Mi chiamo Jordan Belfort. L’anno in cui ho compiuto 26 anni ho guadagnato 49 milioni di dollari, il che mi ha fatto molto incazzare perché con altri tre arrivavo a un milione a settimana”. Mai come in questo caso conviene partire con questa frase per parlare di The Wolf of Wall Street, film del 2013 diretto da Martin Scorsese. Il cineasta italo-americano torna ad occuparsi di un personaggio realmente esistito come aveva già fatto in alcuni dei suoi film migliori (il caso del Jake LaMotta di Toro Scatenato la dice lunga) e lo fa portando sullo schermo la personalità meno ispirante che ci sia al mondo, quanto di più lontano da un esempio virtuoso si possa trovare al giorno d’oggi.
Il protagonista Jordan Belfort, interpretato da Leonardo DiCaprio, per la quinta volta di fronte alla cinepresa di Scorsese, è l’incarnazione perfetta della traiettoria ingannevole che spesso la vita riserva per chiunque. Un uomo che è diventato un dio e, dal suo Olimpo dorato, è crollato miseramente.
The Wolf of Wall Street: trama
Il film ripercorre la vicenda poco meno che decennale di Jordan Belfort, aspirante broker finanziario che approda a Wall Street proprio il giorno del crollo del 19 ottobre 1987, il più grave dai tempi del ’29. Dovendo ripartire da zero decide di seguire il suo istinto e aprire, insieme al suo vicino di casa (Jonah Hill) una sua propria società di brockeraggio, la Stratton Oakmont, che nel giro di pochi mesi lo porta ai massimi livelli del mondo della finanza statunitense.
La sua strategia è quella, moralmente deprecabile, di fregarsene altamente degli interessi dei propri clienti, per arricchirsi a dismisura, con i risultati chiaramente spiegati dalla citazione iniziale. Comincia così una vita fatta di eccessi: lascia la moglie per la bellissima Naomi Lapaglia ( Margot Robbie), è sempre più ricco e cade nella dipendenza dal sesso e da ogni tipo di droga, dalla “classica” cocaina ai farmaci scaduti, introvabili per chiunque altro. Ma ben presto l’FBI gli mette gli occhi addosso, insospettita da una crescita così repentina e irrefrenabile, e per il nuovo dio del denaro Jordan cominciano i guai.
Le origini del mito
Tutto parte da un libro, Il Lupo di Wall Street, scritto nel 2007 dallo stesso Belfort come una sorta di autobiografia ironica verso il sistema e verso sé stesso. Da subito Hollywood ha pensato di farne un film e immediatamente si è pensato a Scorsese per la regia. Dopo una serie di vicissitudini un po’ curiose visto il curriculum dell’autore di Quei Bravi Ragazzi (la Warner non era convinta della sua bozza e stava pensando di ingaggiare Ridley Scott al suo posto), il progetto sembrava essersi arenato, fino a quando un produttore indipendente come Red Granite Pictures ha comprato i diritti e, con la collaborazione decisiva di DiCaprio, per il godimento di ogni cinefilo, la produzione è partita come da programma iniziale.
La sceneggiatura, firmata da Terence Winter, attivo soprattutto nel mondo delle serie televisive, avendo creato il mito de I Soprano, fu da subito considerata un gioiello e rispetta alla perfezione lo stile con cui è stato scritto il libro, compreso l’espediente, grande motivo di discussione al momento dell’uscita del film nelle sale, della ossessiva voce fuori campo che di fatto fa rendere la durata del film colossale (180 minuti totali), ma che al contempo permette al regista di far emergere gli aspetti più curiosi e divertenti dell’intera pellicola. Quest’ultimo aspetto in particolare ha sorpreso anche Scorsese.
The Wolf of Wall Street: recensione
The Wolf of Wall Street viene fin da subito letto come un’eccellente commedia nera, tra i film più divertenti realizzati nel cinema contemporaneo. In realtà il regista non aveva intenzione di far troppo affidamento sulla componente demenziale delle vicende trattate, ma ha ammesso che alla lunga quell’elemento è venuto fuori autonomamente e si è installato come vero protagonista del film.
Ma quello che sorprende maggiormente guardando The Wolf of Wall Street, è la continua spinta verso l’estremo che caratterizza da sempre i film del regista newyorkese. Ogni volta che si finisce di guardare il nuovo film di Scorsese si esce dalla sala pensando che ha raggiunto il limite insuperabile, che da lì in avanti non si potrà più vedere un film più spregiudicato, più affascinante, più dannatamente appagante di quello che è appena finito, salvo poi essere prontamente smentiti al momento della sua creazione successiva. Si era pensata la stessa cosa anche dopo aver visto The Departed, nel lontano 2006, uno dei migliori film polizieschi mai realizzati, e in quel caso le uscite successive del maestro italoamericano sembravano per la prima volta confermare quell’impressione. Scorsese infatti diresse Shine a light, documentario sui Rolling Stones, Shutter Island, thriller storico che non ha scaldato più di tanto i cuori dei suoi fan e della critica, e Hugo Cabret, film molto ambizioso ma più da Spielberg che da Scorsese. Insomma, in molti stavano cominciando a pensare che il vecchio Martin stesse piano piano intraprendendo l’inevitabile viale del tramonto, avendo perso il tocco inconfondibile che da sempre caratterizzava le sue produzioni. Poi arriva nelle sale The Wolf of Wall Street e tutti si rendono immediatamente conto che probabilmente non si era mai visto interamente il potenziale creativo di Scorsese e il regista in qualche modo risorge. Non si ricorda, almeno in tempi recenti, un abbaglio tanto clamoroso nel giudicare un cineasta di tale spessore. Il fatto è che il film del 2013 rappresenta l’ennesimo spostamento della soglia del limite che il regista ha saputo portare in sala. E questa volta fa più rumore perché appare davvero come qualcosa di inaudito e mai visto prima.
La forza del film sta nel suo essere completamente senza filtri, agendo direttamente sul cervello dello spettatore. Gli occhi, la vista diventano semplici mezzi attraverso i quali catapultare le immagini direttamente nella mente dello spettatore, che non ha nemmeno il tempo di razionalizzare ciò che ha appena visto ma è semplicemente travolto dalle inquadrature e dalle battute del film. In un certo senso gli effetti di The Wolf of Wall Street su chi lo guarda sono simili a quelli che le varie droghe producono sui protagonisti Jordan e Donnie, senza la “scocciatura” del tempo d’attesa per percepirne chiaramente gli effetti. Inevitabilmente per raggiungere un tale risultato, serve avere dalla propria parte una produzione perfetta in tutto e per tutto. Detto della sceneggiatura, ottima e tagliente come poche altre nella filmografia di Scorsese, serve anche un cast all’altezza, e in tal senso The Wolf of Wall Street rappresenta un’eccellenza assoluta. Ogni ruolo e ogni interprete che lo incarna sono dosati appositamente per sortire l’effetto desiderato. Ciò non vale solo per i vari protagonisti, come Jonah Hill, perfetto nel ruolo di Donnie, e Margot Robbie (ventitreenne e al quarto ruolo da professionista) sublime nel dar vita e carattere alla spregiudicata Naomi, ma anche, per non dire soprattutto, con i comprimari. All’inizio del film vediamo un Matthew McConaughey straripante, che per quei pochi minuti in cui compare sovrasta completamente il protagonista DiCaprio. Interpreta il personaggio di Mark Hanna, il broker che in qualche modo diventa il mentore di Belfort non solo sotto l’aspetto professionale, ma anche nel suo modo di concepire la filosofia dell’agente di borsa: guadagnare e distrarsi il più possibile, per non impazzire. In poche parole recita la parte dell’irresistibile diavolo tentatore che finisce per segnare a vita il comportamento del suo sottoposto, senza tuttavia mai dargli niente di concreto in mano (il crollo della Borsa gli fa chiudere baracca e burattini). L’unica eccezione, un po’ fastidiosa per la sua superfluità, è il personaggio del banchiere svizzero interpretato dal fresco di Oscar Jean Dujardin, mai veramente utile alla trama o arricchente per il tono generale del film.
Ma il vero mattatore della pellicola non può che essere Jordan Belfort, incarnato dal miglior Leonardo DiCaprio di sempre. Tutto di lui è curioso ed estremo. Non lo vediamo mai lavorare, ma solo guadagnare milioni di dollari e goderseli fino all’ultimo centesimo, senza minimamente considerare il bene di se stesso e di chi gli sta accanto. Ha tutte le caratteristiche per essere il più odioso essere umano sulla terra: è egoista, superficiale, malato, disonesto e incurante di qualsiasi regola scritta o dettata dalla morale. Eppure il suo carisma riesce sempre a prevalere su tutto il resto, facendogli fare colpo su tutti e, soprattutto, rendendolo un leader da seguire anche in mezzo alle fiamme. Inoltre, mantiene una coerenza di fondo che lo rende un personaggio persino lodevole, per lo meno se lo si considera basandosi sulla sua etica. Quando capisce che l’FBI ormai l’ha messo alle strette, potrebbe benissimo ritirarsi a vita privata e scampare una sicura galera, come tra l’altro gli consigliano tutti. Invece lui sa che non sarebbe giusto uscire di scena così e, quasi come un eroe, decide di affrontare il suo destino ormai segnato mantenendo però la sua dignità, differente da quella di tutti gli altri. Curioso è come, sempre nel 2013, lo stesso DiCaprio abbia interpretato anche il personaggio di Gatsby per il film di Baz Luhrmann. In un certo senso i due personaggi (quello di Belfort e quello di Gatsby) si assomigliano in maniera incredibile. Entrambi hanno raggiunto l’Olimpo del mondo degli affari, entrambi sanno divertirsi ed entrambi finiscono per fare una brutta fine. C’è una differenza di stile tra i due, ma non una discrepanza netta da un punto di vista biografico.
Da sottolineare è infine la maestria che Scorsese porta con sé, come bagaglio ormai inscindibile, nell’utilizzo della macchina da presa, soprattutto nelle scene di massa. Nella regia di The Wolf of Wall Street è semplicemente difficile trovare anche solo un difetto. Ha i toni spregiudicati e pazzi dei suoi protagonisti, affogando spesso in un edonismo che coinvolge ogni senso fino a diventare quasi nauseabondo, senza rinunciare alla solita dose di cultura cinematografica da omaggiare a cui il regista ha da sempre abituato i suoi fan. In modo particolare due sono i momenti dove si citano, con affetto e una certa dose di rimpianto, scene e costruzioni cinematografiche di grandi film del passato. La scena (assurda) della parata in ufficio, con scimmie, giocolieri e soprattutto majorettes, chiaro omaggio al corteo festivo presente in Quarto Potere di Orson Welles del 1941, e, soprattutto, l’inquadratura su DiCaprio da dietro la gamba di Margot Robbie ad arco, che rimanda inevitabilmente a Il Laureato di Mike Nichols, film che ha aperto la stagione della New Holllywood nel 1967. Come sempre, il già ottimo lavoro di Scorsese è reso ancora più entusiasmante dal montaggio della sua fedelissima Thelma Schoonmaker, che l’anno dopo diventerà la prima montatrice a ricevere un meritatissimo Leone d’oro alla carriera a Venezia.
Insomma Scorsese non delude mai e sorprende sempre, risorgendo dalle sue “ceneri” come solo la mitologica fenice sa fare. Nel caso di The Wolf of Wall Street, però, il cineasta italoamericano ha saputo superare persino se stesso, arrivando a realizzare un film che davvero non si era mai visto, sicuramente nella top 5 dei suoi film più riusciti.