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Senza lasciare traccia

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Nascosti in un bosco appoggiato su un crinale di montagna ai confini di Portland in quel dell’Oregon, vivono Will (Ben Foster) e Tom (Thomasine McKenzie). Hanno zaini, tenda, scarpe da trekking, fornelletto da campo, coperte, coltelli, scacchi e libri; conoscono erbe, raccolgono funghi, sanno accendere il fuoco, costruire capanne di fronde, coltivare piantine da orto; conoscono ogni rumore che la profusione di alberi e foglie circostante lascia passare, fiutano minacce a miglia di distanza, sono animali ben addestrati a sopravvivere e costantemente vagabondi: non restano fermi nello stesso luogo per molto tempo e si esercitano in particolare a non lasciare traccia di sé e dei loro spostamenti; nessuna orma, nessun suono, nessun colore che non possa mimetizzarsi con la natura, nè una sosta nè un particolare fuori posto. Non vogliono essere rintracciati.

Non sono in fuga, non hanno commesso reati, non sono criminali, non sono homeless, non sono hyppie. Allora chi sono.

Senza lasciare traccia

Will è il padre e Tom, a dispetto del nome, la figlia minorenne. Lui è un reduce di guerra con disturbo postraumatico da stress, incubi notturni e poche parole in bocca. Lei è una ragazzina mai appartenuta alla società civile eppure istruita e molto sveglia: non ricorda sua madre, ma solo le foreste che ha attraversato con il padre di stagione in stagione.

Entrambi non sono abituati a vivere con altre persone, in particolare Will ne soffre in modo profondo ed indefinibile; Tom lo segue perché è ciò che ha sempre fatto, ma desidera anche conoscere e partecipare del mondo che il padre sfugge e che a lei non è stato mai concesso di conoscere effettivamente.

Senza lasciare traccia

Nonostante la loro capacità si sparire, un giorno i Ranger della forestale li scovano: non è illegale non possedere una casa, ma non si può vivere su suolo pubblico. Così vengono prelevati e trasferiti in una località rurale non molto distante: gli viene offerto alloggio e lavoro, in cambio devono integrarsi.

Tempo un mese e Will trascina Tom in una nuova fuga: nuovo clima, nuovi rifugi, nuovi sottoboschi, nuovi rischi, nuovi incontri; quante tracce ancora dovranno far perdere e a quanti futuri possibili non dovranno affezionarsi prima di fermarsi?

Senza lasciare traccia

Era il 2010 quando Un gelido inverno sbancò il Torino Film Festival e portò fortuna ad una giovane Jennifer Lawrence candidandola nel 2011 al suo primo Oscar come miglior attrice; è il 2018 quando Debra Granik torna a far sentire voce, modi, tempi e mondi che le appartengono con la sua ultima opera tratta dal romanzo di una storia vera My Abandonment di Peter Hook, presentandola al Sundance e a Cannes (Quinzaine des Realisateurs).

E ancora una volta, come accaduto per entrambi i film, la regista ci sposta alle frontiere della società, tra quella fetta marginale di popolazione americana che al massimo della popolare comprensione potremmo definire folkloristica, ma che in realtà possiede identità e senso di sé e del territorio occupato, più radicale e radicato di tante facce da cartolina correntemente sdoganate.

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Ci sono spiriti liberi che non hanno collocazione e non la vogliono trovare: non è cattiva volontà o irresponsabilità, non abita in loro paura, né odio, neppure violenza malcelata; no. Sono liberi nonostante sé: di quella libertà che non puoi darti né toglierti, che non decidi, che ti insegue se non la insegui, che ti chiede il conto, che ti toglie tempo e spazio comuni e te li restituisce nelle forme che prevede lei, che ti rende estraneo a te stesso e agli altri pur di r-esisterti.

Will è libero così. “So che se potessi non andresti via” gli dice Tom, in una frase che vale tutte le parole non dette dalla cui studiata assenza affiora il personaggio e la sua patologica necessità di indipendenza dagli altri.

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Fugge l’uomo, dagli spettri, dalla morte, dal mondo come lo conosciamo o come lo usurpiamo, fugge da ciò che è regola umana per tornare alla regola naturale, l’unica intatta, che mantiene il senso e non si altera nell’alienazione contemporanea. “Pensare con la nostra testa” ripete Tom, convinta e disperata, come baluardo di fede cui aggrapparsi per capacitarsi dell’atipica esistenza scelta dal padre per lei.

Ritirarsi dal mondo per conoscere il mondo: lo faceva Christopher McCandless, protagonista dell’ Into the wild di Sean Penn, in una sorta di selvaggia ritirata nel selvaggio americano che lo avvicinava fatalmente al senso della vita e di ciò che c’era e permaneva, prima, durante e dopo l’uomo stesso.

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Qui non c’è il medesimo intento esplicito, ma spesso l’effetto involontario ricalca certe stesse atmosfere: un uomo e sua figlia, la sua sola famiglia, si isolano volutamente, ed incontrano altri uomini con altre piccole famiglie, spesso fatte di altri animali, cani, cavalli, conigli, api, che hanno scelto a loro volta di isolarsi, di condividere diversamente gli spazi, “ le proprietà”, i sogni ed i bisogni, ridisegnando il tempo, la fiducia, il tipo di rapporti, senza chiedere ma offrendo.

Meravigliosa e toccante metafora di una solitudine scelta per curarsi l’anima, di un eremitaggio salvifico in conflitto a sua volta con i sacrifici che richiede ed i propri limiti, altro modo di puntare gli occhi ad una natura terapeutica, madre crudele e comprensiva, che offre a tutti una possibilità, anche a chi crede di non saper più stare al mondo, di non capirne i meccanismi, le burocrazie, le apparenze, le credenze, le consuetudini.

Senza lasciare traccia
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Non c’è scontro agguerrito tra le due realtà; non c’è prevaricazione, incombenza, urgenza di riportare i volontari dispersi nell’argine della regolamentazione cittadina: la collettività addomesticata è solo una possibile alternativa, che prova a farsi strada suggerendo le sue ben note mosse, ma resta al margine anche lei, a guardare come questa coppia di animali, ognuno ferito a suo modo, possa riprendere la propria via.

La metropoli osserva, non troppo vicina né troppo lontana, interviene quasi per caso ad ingombrare il loro spazio, fa quel che deve, nulla più: questa è l’odissea di Will e Tom, fisica e mentale e deve risolversi da sola, come natura vuole, come natura accade, in coerenza con il loro modo di vita.

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Padre e figlia soli nel mondo, soli insieme, per qualche umana e sovraumana ragione, soli a proteggersi nella e dalla natura e non perché siamo in una qualche apocalisse distopica di cui spesso rimpinzano troppo facilmente sceneggiature e grandi o piccoli schermi: è qualcosa di più interessante che tiene incollati alle loro sorti precarie ed enigmatiche. E’ un binomio perfetto, binomio tragico ed epico, binomio di amore e conflitto per eccellenza, binomio significativamente vitale, esperito qui con grazia, eleganza ed intelligenza rare.

Dialoghi ridotti al minimo, suoni rurali familiari o pericolosi, sguardi che si rincorrono reciprocamente, si chiamano, si domandano, si rispondono, senza nessun orpello di sorta; poca storia, densa, suggestiva, galleggia tra silenzi emotivamente carichi e commoventi che possiamo spontaneamente riempire di nomi e cognomi, personali ed universali.

Senza lasciare traccia

Racconto che ha effetti inclusivi sugli esclusi per scelta e anche per mancanza di scelta, autoassediati in un profluvio di verde pluviale, ricchezza disseminata negli splendidi parchi americani, che sembrano custodire gelosamente la chiave di una bellezza che persiste e non cede il passo al contemporaneo.

Intuizione e dedizione per i due splendidi protagonisti (la McKenzie la ritroviamo ragazzina ebrea nel recentissimo Jojo Rabbit di Taika Waititi) portatori di una vitalità composta, endogena, su corpi bianchi, scolpiti da luce ed oscurità, simili e dissimili, dolorosamente insieme. Fotografia severa di fine autunno, inizio inverno, che si addolcisce nell’ultimo nido passeggero e nell’incarnato sincero dei personaggi.

Senza lasciare traccia

Essenziale tutto. Essenziali tutti. Non lasciare il segno: l’unica scelta che farebbe sensazione al mondo, oggi che chiunque punta a fare rumore e si confondono tracce di vita, con la vita stessa; per ritrovarsi, bisognerebbe trovare “solo” il coraggio di sparire.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Will e Tom vivono nomadi tra i boschi americani: lui è un reduce di guerra con disturbo post-traumatico da stress, lei è sua figlia e non è mai vissuta nella società civile. Parabola densa, intelligente e toccante, sulla sparizione come mezzo di protezione, di dissenso sociale, in conflitto con l'organizzazione civile; natura v/s stato; libero arbitrio v/s comune sentire; inclusi v/s esclusi; padre v/s figlia. Lavoro fisico ed emotivo, dal midollo rivoluzionario, ottimamente interpretato e tratto da una storia vera.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.
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