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American Honey

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Da sempre il senso di libertà ha contraddistinto il sogno americano. Quell’american dream raccontato in mille forme e modi da poeti, scrittori, cineasti e chi più ne ha più ne metta. A questa lista si aggiunge Andrea Arnold con il suo “American Honey” (disponbile su Netflix). Girato interamente in formato 4:3, (i primi film venivano girati in questo formato, oggi usato decisamente meno) il film racconta la storia di Star (Sasha Lane), una giovane ragazza afroamericana che decide di abbandonare il suo stato di miseria, per unirsi ad una combriccola di giovani venditori di riviste porta a porta.

American Honey

Star, stella. Come quelle dipinte sulla tanto amata bandiera americana. E’ lei la protagonista indiscussa della pellicola. Ma, la sua stella non è ancora pronta ad esplodere e ad emanare luce. Deve ancora trovare la sua strada. L’occasione di unirsi al gruppo di venditori di riviste rappresenta per Star un’occasione di riscatto: lasciarsi la provincia alle spalle e ripartire da zero. Ma altro non è che un’illusione. In realtà Star si libera dai suoi legami familiari per ritrovarsi all’interno di un gruppo di emarginati, come lei. L’America messa in scena è quella isolata, della provincia urbana, dimenticata e abbandonata a se stessa. Dimentichiamoci il traffico di New York, le spiagge di Los Angeles e le luci di Las Vegas.

La regia di Arnold è dinamica, vitale, a volte addirittura sporca e si sofferma sui dettagli per cogliere gli stati d’animo dei protagonisti in maniera travolgente. Fondamentale è la visione e l’immersione nel paesaggio urbano, che in opposizione allo status dei ragazzi appare esteticamente perfetto. Le sequenze sono lunghe introspettive e vengono interrotte da incursioni paesaggistiche per dare un ritmo incalzante a fronte di una durata forse un po’ eccessiva (2h e 45min circa). Ad immagini visivamente travolgenti la regista oppone sequenze che sembrano dei filmini amatoriali, soffermandosi su dettagli apparente insignificanti (piante, insetti ecc.) come in un documentario. 

La colonna sonora assume un aspetto dominante e sostiene in maniera perfetta l’immagine filmica. Ovviamente predomina il genere per eccellenza della generazione Z, ovvero la trap, con le tracce di Juicy J, Rae Sremmurd, Jeremih e MadeinTYO. Ritroviamo anche le sonorità di un altro genere fortemente legato alla cultura americana: il country. Ma a differenza delle canzoni trap che vengono utilizzate nei momenti conviviali all’interno delle dinamiche di gruppo, le tracce country di Bruce Springsteen e Lady Antebellum (il film prende il titolo proprio da una loro canzone omonima) fanno da supporto a momenti più profondi, pieni di nostalgia per il passato e consapevolezza per un futuro instabile. 

American Honey

Centrale è anche il personaggio di Jake, interpretato in maniera avvincente da Shia LaBeouf. Il business delle riviste ruota intorno a Jake, riconosciuto come leader in quanto più abile a sedurre gli acquirenti. L’arrivo di Star sconvolge emotivamente Jake, che mette in mostra un altro lato meno scontroso e più emotivo. Star è l’evasione di Jake, ma diventa anche la sua ossessione instaurando con lei uno strano rapporto di amore/repulsione basato esclusivamente sulla fisicità.

“American Honey” è il ritratto dell’America attraverso gli occhi della nuova generazione. Alla base della piramide troviamo proprio la generazione Z. La nuova generazione che utilizza in modo massiccio internet e la tecnologia, in questo film completamente assenti. È una generazione emarginata, trascurata dalla classe politica dirigente. Insieme a loro vediamo anche i ricchi proprietari terrieri texani, la middle class bianca arroccata nelle sue convinzioni. Il tutto senza però proporre una critica davvero profonda. La rappresentazione delle varie classi sociali è solamente uno sguardo di passaggio, di sfuggita proprio come il gruppo di ragazzi continuamente in movimento.

Il loro status sociale di emarginati crea una dinamica dello spazio: i ragazzi, andando a suonare porta a porta nelle case dei quartieri benestanti, invadono un territorio in cui la loro presenza non è autorizzata, instaurando una dinamica di permeabilità degli spazi, che nella concezione post-moderna possono essere continuamente invasi da soggetti che non vi avrebbero diritto d’accesso, rendendo quindi vulnerabili quei soggetti che lo attraversano, che dovrebbero restare invisibili allo sguardo egemone dominante.

La messa in scena di Andrea Arnold è disordinata, libera come gli autori della Beat Generations e il suo stile autoriale evidenzia la sua grande cultura cinematografica. La ribellione contro il sistema  messa in scena dalla regista ricorda sicuramente un film pilastro della contro-cultura americana “Easy Rider”, mentre il ritratto generazionale così totalizzante ricorda “La vita è un sogno”. E ancora il viaggio di Star alla scoperta di se stessa ci riporta alla mente “Belli e dannati” di Gus Van Sant.

Tuttavia “American Honey” non convince a pieno in quanto contraddittorio: lo spettatore non riesce a identificarsi profondamente con nessun personaggio. E’  tutto sfuggente. Ci immergiamo profondamente, ma poi risaliamo in superficie e andiamo oltre, senza soffermarci. Come nel finale, dove Star si immerge in acqua e risale in superficie facendo schizzare i suoi lunghi capelli, sottolineando ancora una volta che la libertà, dopotutto ci rende liberi. 

Voto Autore: [usr 3,0]

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