E’ su Netflix la serie in otto episodi “Ripley“, basata sull’ambiguo personaggio Tom Ripley, protagonista dei romanzi di Patricia Highsmith. Dalla raffinata penna di questa scrittrice di gialli, ci sono stati numerosi adattamenti sui suoi romanzi in questione. Nel passato quello con Alain Delon in “Delitto in pieno sole” del 1960, ma soprattutto, e quello più famoso di tutti, “Il talento di Mr. Ripley“, con protagonisti Matt Damon, Gwyneth Paltrow e Jude Law.
Quest’ultimo ebbe anche una nomination come miglior attore non protagonista ai Premi Oscar 2000 per la sua interpretazione di Dickie Greenleaf. Mentre in questa serie, creata e diretta da Steven Zaillian, già sceneggiatore di numerosi film di successo come “Schindler’s List” e “Gangs of New York“, è interpretata dal bravissimo Andrew Scott, che risulta perfetto nella parte di quest’ambiguo truffatore Tom Ripley.
Ripley: il cast
Andrew Scott è il protagonista assoluto di questo lungo, approfondito e singolare adattamento sul personaggio di Tom Ripley. John Flynn interpreta Dickie Greenleaf, mentre Dakota Fanning è Marge Sherwood. Il regista Kenneth Lonergan invece interpreta il patriarca Herbert Greenleaf che incarica Tom di riportare negli Stati Uniti il suo rampollo scavezzacollo Dickie. Eliot Summer è Freddie Miles, nel ruolo che fu di Philip Seymour Hoffman nella pellicola di Minghella. Margherita Buy è la Signora Buffi, mentre Maurizio Lombardi è l‘ispettore Pietro Ravini.
Ripley: trama e recensione
Tom Ripley è un’abile truffatore nella New York degli anni 60′. Con il suo abile savoir faire, riesce ad entrare nelle grazie di un uomo ricco, Herbert Greenleaf. L’uomo, colpito dai modi di fare del giovane, lo convince a fare un viaggio in Italia incaricandolo di riportare a casa il suo viziato erede Dickie, che fa la bella vita con la sua ragazza Marge. Ripley accetta e da lì ci sarà una sequela di inganni continui per l’uomo.
Quest’adattamento dei thriller della Highsmith aggiunge una vena noir, misteriosa e alquanto raffinata alle avventure moralmente ed eticamente ambigue di questo truffatore. Se nel film di Anthony Minghella, emergeva un recondito desiderio d’amore da parte di Tom Ripley, cioè di essere amato in qualche modo, nella serie il sentimento predominante è l’invidia.
Il Ripley incarnato da Andrew Scott raggiunge delle vette di glacialità significativa, cercando comunque di sopravvivere con incredibile calma ai danni che crea strada facendo. Se quello di Matt Damon soffriva enormemente nel momento in cui uccideva il Dickie arrogante e prepotente di Jude Law, questo di Andrew Scott reagisce diversamente.
Sceglie volutamente con implacabile freddezza di assassinare il giovane borghese apatico e senza reale carisma di John Flynn. Questa è la differenza nella sceneggiatura creata da una parte da Anthony Minghella, e dall’altra da Steven Zaillian. Infatti quest’ultimo sceglie di dilatare i tempi all’infinito concentrandosi sui primi piani nei volti dei personaggi.
Narrazioni differente tra la serie Netflix e il film del 1999
Se la narrazione de “Il talento di Mr. Ripley” correva veloce, come altrettanto veloce era il vortice in cui si andava a cacciare il Tom Ripley di Matt Damon, quella di “Ripley” talvolta appare dimessa in maniera esasperante, ma al contempo necessaria. Steven Zaillian preferisce approfondire e creare una ruota metaforica e simbolica intorno al suo carattere principale.
Niente viene lasciato al caso, e se nella versione del 1999 più volte il personaggio si trovava ad improvvisare anche con un certo nervosismo, quello di Scott mantiene un’algida staticità, anche nel non lasciare trasparire le sue emozioni. Il bianco e nero poi rende tutto più cupo anche in un’epoca la luce diventava metafora di una rinascita.
Il boom economico italiano si intrecciava nelle vicende di Matt Damon e Jude Law con vibranti esibizioni musicali sulla scia di “Tu vuo fa l’americano”, mentre in Ripley le atmosfere felliniane si alternano alle dolcissime note dell’immortale Mina con “Il cielo in una stanza”. E il bianco e nero con quest’atmosfera assume un sapore rigorosamente vintage.
Il paesaggio stesso diventa un alternarsi consapevole nel flusso di coscienza di Ripley, che con fare invidioso desidera una vita profondamente diversa per sè. Ed è proprio lo sfarzo e l’ozio di Dickie che lo colpiscono e cercano di portarlo al suo intento. Ripley entra a gamba tesa in una spirale fatta di scambi di identità e omicidi senza fine.
Location e interpretazioni differenti nei diversi adattamenti
Se la Marge Sherwood di Gwyneth Paltrow diventava rabbiosa e diffidente, anche quella impersonata da Dakota Fanning è sospettosa, ma si mantiene nel corso della serie piuttosto fredda senza particolari sussulti. Nel film di Minghella la location principale era l’immaginaria Mongibello, quì invece è la reale Atrani in provincia di Salerno.
Ma anche Palermo, Roma e Venezia fanno da sfondo ai continui salti temporali che il personaggio di Scott compie per camuffare i suoi inganni ed evitare una potenziale cattura. L’essenza del romanzo viene presa, elaborata profondamente da Zaillian e ricreata in un’Italia nostalgica, caratterizzata però da un’aurea hitchcockiana.
Da segnalare anche l’interpretazione pacata e tesa alla verità di Maurizio Lombardi nei panni di Pietro Ravini, che aggiunge un notevole tocco noir investigativo a questa sontuosa e differente trasposizione. Forse Margherita Buy poteva essere utilizzata di più, ma quì assume un ruolo marginale nei panni della signora Buffi.
La differenza la fa però Andrew Scott, che dopo essersi distinto in ruoli significativi come il Professor Moriarty nella serie “Sherlock” e nel suo bel ruolo di Adam nel film “Estranei” di Andrew Haigh, insieme a Paul Mescal. Il suo Ripley è molto più avanti negli anni rispetto a quello di Matt Damon che appariva in un certo senso goffo e impacciato.
Ed è proprio questa maturità caratteriale che Zaillian ha immesso nel personaggio, a determinarne la versatilità, ma soprattutto la credibilità a livello di sceneggiatura. Un Tom Ripley ancora più maturo era stato interpretato da John Malkovich ne “Il gioco di Ripley” (2002), ma con risultati ampiamente differenti rispetto al film di Minghella e a questa serie.
Conclusioni
“Ripley” di Steven Zaillian è una mosca bianca (nel senso positivo del termine) in quello che è il cumulo (o accumulo) di produzioni Netflix, tutte rivolte a catturare il numero di abbonati, e mai a guardare veramente alla qualità. Una serie di pregiata qualità che merita un occhio particolare di riguardo, e che probabilmente avrà (quasi sicuramente) una seconda o più stagioni.
Ma per fare questo bisogna fare attenzione ai romanzi della Highsmith che forniscono materiale potenziale per nuovi adattamenti, ma soprattutto alla scrittura. Proprio quest’ultimo processo è fondamentale nella costruzione di un personaggio ambiguo ma memorabile come Tom Ripley, che vanta un’ottima interpretazione da parte di Andrew Scott.