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Manchester by the Sea

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Questa Manchester è imbevuta in un gelido mare increspato. Qui la guida è a destra e il vento ghiacciato agita bandiere americane. Questa è Manchester-by-the-Sea, Massachusetts. Qui, a pochi chilometri da Boston, i pensieri li si affida alle onde. E il frastuono della vita lo si nasconde sotto il manto della neve, facendolo tacere a sorsate di birra.

“Manchester by the Sea” è uno dei film più intensi degli ultimi anni. Vero, tragico e dannatamente vivo. Un dramma che resta addosso, liberato dalla disperazione esplosiva, che abita nelle parole mai pronunciate, nei pianti trattenuti, nelle emozioni frenate. Il film è stato ideato e prodotto da Matt Damon, che lo ha poi ceduto all’amico regista Kenneth Lonergan (ha contribuito alla scrittura della sceneggiatura di “Gangs of New York”). Il protagonista loquacemente inespressivo che lo interpreta è Casey Affleck, fratello di quel Ben (Affleck) amico d’infanzia dello stesso Damon. Matt D. e Ben A. vinsero l’Oscar per la sceneggiatura per “Will Hunting – Genio ribelle; e anche nel 2016 l’accoppiata Damon -(uno dei due) Affleck funziona alla grande: “Manchester by the Sea” regala a Casey l’Oscar come miglior attore protagonista e al regista Lonergan quello per la sceneggiatura originale.

Manchester by the Sea

Lee Chandler (Casey Affleck) vive come fosse già morto. Deve essergli accaduto qualcosa. Qualcosa che non si ha voglia di raccontare, quel genere di cose alle quali ci si rammarica di essere sopravvissuti.  Vive a Boston, in una stanza poco arredata che non ha fretta di definire casa, impegnato in un lavoro che non vuole svolgere con troppa dedizione. A tenergli compagnia i ricordi di pomeriggi trascorsi a bordo di una barca con il fratello e il nipote. Con la canna da pesca in mano, la birra nell’altra e qualche risata offerta in faccia alle onde. Quando l’amato fratello Joe (Kyle Chandler) muore a causa di una malattia cardiaca, Lee è costretto a fare ritorno a Manchester. Mentre si occupa di un funerale maledettamente costoso, scopre di essere stato nominato tutore del nipote Patrick (Lucas Hedges – “Boy Erased“).

Lee non vuole nemmeno considerare la possibilità di rimanere a Manchester. Lì lui è “quel” Lee Chandler, quello di cui ancora si parla a bassa voce, quello il cui passaggio è ancora annunciato da lunghi sguardi di compassione. Sarà costretto a fermarsi in quel gelido borgo più a lungo del previsto, dovrà lasciarsi tormentare dai ricordi prima di capire che fare con quel giovane dolorosamente tradito dal destino ma coraggiosamente traboccante di vita.

Manchester by the Sea

Il passato di Lee ci viene rivelato attraverso alcuni flashback. Sono i ricordi di una famiglia di cui si sono perse le tracce, di una leggerezza che sembra essere appartenuta a qualcun altro, di uno sguardo diverto sulla vita che si è perduto per sempre. Scopriamo il suo rapporto profondo con il fratello Joe, la giocosa intesa tra Lee e il nipote Patrick, il cuore acciaccato di Joe e l’ingestibile dipendenza dall’alcol della madre di Patrick, la relazione d’amore intenso con la moglie Randi (Michelle Williams) e con i loro tre figli.

Tutto ci viene narrato senza alcun sensazionale gioco di logica deduttiva. La scrittura di Lonergan non vuole colpire per la sua capacità di scomposizione e ricucitura, le traiettorie vengono ricostruite assecondando una dinamica interiore: Lee fa libere associazioni, rivive sentimenti o rifiuta il loro risorgere. Così si presentano a noi immagini di situazioni, persone e paesaggi. Il dolore non se ne è andato, non ha mai smesso di consumarlo, disegnando cavernosi solchi sul cuore. Ed è navigando senza soluzione di continuità in quei fiumi disperati che impariamo a conoscere la storia di Lee. Un viaggio che prende quota ad ogni superfluo residuo narrativo, mentre il dramma lo si difende ai margini. Perché quando la vita ferisce alle spalle si continua a nutrire quel dolore come fosse tutto ciò ci resta.

“Non conta più niente” dice Lee a Randi in disgraziato bisogno d’amore. Erano abituati a resistere a tutto armati di un’irresponsabile ironia, ora non riescono più a dirsi nulla. E ciò che resta è tutto impresso sul volto di Lee, marchiato a fuoco nei suoi silenzi, in quella camminata nervosa. La sua mobilità limitata a causa dell’insopportabile fardello a cui è stato costretto dal destino è sottolineata dal quasi costante utilizzo della camera fissa (Lonergan opta per il movimento solo per gli spostamenti in auto o per le, non sporadiche, risse da pub in cui Lee si rifugia).

Casey Affleck (già apprezzato in “Gone Baby Gone”) plasma sulle sue spalle un personaggio grandioso, complesso, silenzioso ma di cui percepiamo il tormento fin dalla prima inquadratura. Il suo Lee sembra sempre sul punto di esplodere, trattiene la sua disperazione con disumano sforzo. Casey Affleck non perde mai intensità, portando sullo schermo lo strazio di un uomo consumato dalla tristezza.

Accanto a lui troviamo Lucas Hedges, nei panni del nipote Patrick. Lo sguardo di Hedges è un misto di paura e sfacciataggine, riuscendo nella non facile interpretazione di un giovane che non si lascia sopraffare dall’assenza, che prova a non perdere se stesso nel panico, che combatte per trattenere a sé il desiderio di vivere.

Michelle Williams interpreta la moglie Randi. Nonostante le scene a lei dedicate non siano numerose il suo volto dall’espressività tagliente resta nella memoria. Risate, leggerezze, lacrime smorzate in disperati singhiozzi. L’immagine di una donna a cui il dolore fiorisce ancora dentro, con l’immenso bisogno di tornare a respirare a seguito di una lunga apnea di sofferenza, ci viene restituita dalla Williams in maniera drammaticamente perfetta.

Il dolore che stordisce e toglie il fiato, l’insopportabile fatica di continuare a vivere, nonostante la ferita non accenni a rimarginarsi sono questi i temi di “Manchester by the Sea”: un film dalla scrittura asciutta, che vive di ogni sottrazione, animato da performance attoriali perfette e da emozioni affatto artificiali. È proprio per questo che appare troppo forzato l’intento di evidenziare ulteriormente i momenti più drammatici con una colonna sonora solenne (l’Adagio d’Albinoni). Probabilmente era già tutto quanto nel volto insofferente di Casey Affleck. Ma ciò non può scalfire l’intensità di questa storia. Si trova persino il tempo per qualche grottesco sorriso, perché si sa, l’essere umano sa lasciarsi scappare qualche imprevista e irragionevole ironia anche nella profonda tristezza.

Lonergan sa alzare il velo sul dolore, riesce a mostrare le sue sembianze per nulla rassicuranti senza artifici, per poi tornare a coprirlo senza lasciarci sprofondare nell’abisso. “Manchester by the Sea” ha in sé una carica di dolore dirompete, ed è raro inciampare in una narrazione in cui tale violenza emotiva sia accomunata a questa sobrietà. I personaggi non si abbandonano alle loro emozioni più intime, non tanto, o comunque non solo, per incapacità nell’esprimerle, ma perché questo è il solo modo per poter sopravvivere. Qui c’è spazio solo per la vita vera, quella vissuta arrancando, quella in cui droga e alcol non sono frutti dell’inferno ma esiti del vivere quotidiano, quella in cui facili vie spirituali non sono affatto praticabili.

“Manchester by the Sea” è un film onesto, che mette grandi drammi sulle spalle di piccoli normali uomini. Cieli lividi e tristezze incurabili. La vita che caparbia invoca di essere vissuta, implorando anche chi non ha nemmeno più la forza per abbandonarsi ad un timido sorriso. “Manchester by the Sea” è un dramma con il cuore straziato a cui sono state già accuratamente asciugate le lacrime. Perché ci sono dolori con radici così robuste da lasciare spazio solo al nulla.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

“Manchester by the Sea”è un film dalla scrittura asciutta, che vive di ogni sottrazione, animato da performance attoriali perfette e da emozioni non artificiali. Uno dei film più intensi degli ultimi anni. Oscar come miglior attore protagonista a Casey Affleck e al regista Lonergan quello per la sceneggiatura originale.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.
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