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Noi siamo infinito

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“We could be heroes, just for one day”: risuona a tutto volume il ritornello dell’inno generazionale di David Bowie, mentre Sam (Emma Watson) è in piedi sul retro di un minivan con le braccia spalancate, il vento in faccia, dentro un tunnel giallo d’ambra per le luci in corsa che sbocca in braccio ad un ponte stile San Francisco. Ma siamo a Pittsburgh, modesta e sonnacchiosa provincia e sono i primi anni novanta.

Guida divertito Patrick (Ezra Miller) il fratellastro della ragazza, dandy ante litteram, capobanda degli sbandati, creativo e gaudente come Oscar Wilde, meno colto, ma gay tanto quanto il più noto letterato; contempla l’angelo metropolitano che grida sbracciandosi in piedi sulla macchina il suo urlo di vita e liberazione, Charlie (Logan Lerman) il protagonista di questa storia, l’amico nuovo di zecca, il ragazzo “della vita accanto”.

Noi siamo infinito

Timido, introverso, studente brillante, divoralibri, con in mente di scriverne uno da sé, ascoltatore di ogni genere di canzoni senza averne una propria, Charlie è un adolescente chiuso in se stesso, nei giochi che la sua mente ferita dal passato tira in ballo nei momenti di difficoltà e a cui dichiara guerra silente; si accinge ad affrontare le superiori dopo che il suo miglior amico si è tolto la vita l’estate, senza lasciare un messaggio ed ora è solo ed impacciato, all’inizio di un percorso educativo e personale determinante.

La sua vita è fatta di non disturbare, di amnesie e visioni non serene, di una voce sottovoce e una dolcezza d’occhi che emana iper-comprensione, di un amico immaginario a cui scrive lettere per raccontare i suoi problemi, dello stare un passo di fianco alle persone, mai avanti a loro, del non far mostra di sé, del fare felici gli altri prima di sè, del farsi voler bene per tacitare le ombre crudeli che lo assillano da tempo: Charlie è il perfetto bravo ragazzo, il drammatico quattordicenne sfortunato, che inciampa nella vita di Sam e Patrick e del loro gruppo di amici, e ci resta imbrigliato per un anno intero. Mentre loro si diplomano, lui cresce.

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In questa fortuita e inusuale comitiva ci sono i non vincenti, i non provetti, i non modelli, i “niente” come lui, bizzarri ma molto affiatati, che sanno del mondo più di chi li bullizza; grazie a loro Charlie impara l’amore, la distanza, la vicinanza, la condivisione, la paura, la delusione, un po’ di sesso, un po’ di droga, un po’ di rock, e scioglie il guscio velenoso che lo paralizzava rendendolo spettatore e non partecipante della sua stessa vita. Traumi vecchi e nuovi giungono ad un check-point, prendono volto paure personali e un adolescente riprende in mano la bellezza della sua età.

The perks of being a wallpaper, tradotto in italiano con Ragazzo da parete è il romanzo epistolare divenuto bestseller con cui Stephen Chbosky, nel 1999, sbanca le classifiche editoriali di mezzo mondo, arrivando a vendere oltre un milione di copie solo negli Stati Uniti.

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Entra così nei cuori di una generazione di ragazzi che adoravano il vinile, registravano a mano le audiocassette, cercavano in radio le canzoni preferite senza avere modo di sapere chi fosse il cantante, si organizzavano per non perdere un ballo scolastico, per giocare ad obbligo o verità, per sballarsi di marjuana con accenni di lsd, per inscenare il Rocky Horror Picture Show come recita scolastica, schivi strizzatori d’occhio alla disinibizione, alla sana trasgressione; avevano sogni concreti e possibili nei quali nulla era regalato ed erano figli di una generazione non sufficientemente moderna da accogliere un omosessuale in famiglia, ma nemmeno reazionaria al punto da non permettergli lo studio.

I bravi, ipersensibili, incasinati, ragazzi di un’età di mezzo, non millennials giornalisticamente intesi, né pionieri della rivoluzione, in lotta composta con le misure del mondo, per non esserne solo tappezzeria, come si allude nel titolo del libro.

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Oltre un decennio dopo, anno 2012, lo stesso Chbosky, forte di anni di lavoro su campo, ispirazione e studio della sceneggiatura, torna su questo suo progetto del cuore rendendolo film, con la stessa onestà che aveva guidato la sua penna muove la macchina da presa, sicuro nel dare forma ed anima a delle immagini che covavano nella sua mente da molto tempo.

Frutto di un periodo di disagio personale, che ha trovato esorcismo nella scrittura, e in un’attenzione concreta verso la diversità vissuta dai più piccoli (basti pensare al recente Wonder del 2017, sempre da lui diretto), le sue parole semplici ed universali utilizzate per mette in fila le esperienze di Charlie rendono spontanea l’immedesimazione in chi ha attraversato simili, se non identiche debolezze, fatte di sbandamento e panico dell’altro: scopriamo, o meglio, ci ricordiamo che il mondo è circondato ed abitato da frequenti solitudini individuali, riconoscibili ed ignorate, spesso ubicate negli adolescenti, che per primi dovrebbero vivere e ricercare la dimensione comunitaria, ma non ci riescono, temono, non sanno come muoversi, sfiancati da paragoni fraterni, aspettative genitoriali o traumi personali rimossi per non moltiplicare ansia e preoccupazione attorno a loro.

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Così Charlie dice sempre sì, c’è sempre per tutti, se sbaglia lo fa quando è ubriaco o non in sé: mette la vita di tutti davanti alla sua e spera che questo sia o comporti affezione nei suoi confronti. Accetta l’amore che crede di meritare: l’errore dei “deboli”, il tallone degli indifesi, delle vittime in astinenza da amore. Capita e non è la fine. Solo un capitolo della formazione. Ma va riconosciuto, e può non essere affar semplice, specie se si hanno quattordici anni e più incubi che sogni da raccontare.

Non possiamo scegliere da dove veniamo, ma dove andiamo, ripetono a Charlie: questo stare un passo dietro gli altri per non perderli di vista, quando poi sono gli altri a perderlo di vista, non è un escamotage proficuo per scansarsi dal dolore. Semmai è un prendere tempo in attesa della resa dei conti, da cui non possiamo salvare né noi stessi, né gli altri. Essere qui, essere presenti, essere vivi, essere infiniti, è la troppo inconsapevole vittoria più importante.

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LOGAN LERMAN stars in THE PERKS OF BEING A WALLFLOWER © 2011 Summit Entertainment, LLC. All rights reserved.

Ogni personaggio ha la propria croce da rimarginare, come un branco di anime simili in cerca di equilibrio tra l’età adulta e il proprio midollo naturale. La colonna sonora delle ore trascorse insieme è parte drammaturgica del film, amplifica sensazioni ed atmosfere, esplicita drammi, parla in luogo di silenzi: dagli Smiths, ai Sonic Youth, per tornare all’iconico Bowie.

Cantano e ballano questi ragazzi, abbracciati letteralmente da una fotografia calda che si dichiara così partecipe delle loro avventure, incarnate dal trio d’oro Lerman-Watson-Miller, con volti e fisici in perfetta parte ed aria fresca, leggerezza sfrontata mista ad improvvisa empatia, ingredienti salienti della storia. Stupiscono certi spunti onirici con cui affiorano i fantasmi di Charlie, in una narrazione sostanzialmente tradizionale, permeata da radicale autenticità e meritevole compostezza, mentre la dimensione epistolare concentra la portata psicologica delle varie prese di coscienza rendendole degli “a parte” psicologici efficaci per il pubblico. 

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THE PERKS OF BEING A WALLFLOWER

Se si amano i drammi adolescenziali, questo è un film che non delude; altrimenti resta un documentario sentimentale d’antan, nato affinchè chi compie diciassette anni non si dimentichi di quando ne aveva sedici. Chbosky ha dalla sua l’intima competenza tematica e l’onestà con cui sfugge alla sensazione retorica e all’effetto, sintomo di una maturità che cova non molto distante.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Charlie è il ragazzino della "vita accanto", in bilico tra demoni personali ed amicizie liceali. Dramma adolescenziale, tratto dall'omonimo best-seller, semplice, autentico ed efficace. Viatico cult per pre-millennials, decoder del disagio di una generazione in transizione; colonna sonora iconica, ambra fotografico d'antan ed un cast affascinante: chi compie diciassette anni si ricordi di quando ne aveva sedici.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.
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