Pom Poko

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Era il 1994 quando lo Studio Ghibli produsse questo gioiellino diretto da Isao Takahata, ma purtroppo le tematiche di cui tratta Pom Poko sono ancora tristemente attuali. Takahata, morto circa in questo periodo due anni fa, si è reso famoso in tutto il mondo per lo straziante Una tomba per le lucciole, seguito da altre piccole grandi perle, come Pioggia di ricordi, I miei vicini Yamada, e il sofferto La storia della principessa splendente. Con un range che spazia dalla delicata commedia (I miei vicini Yamada), al duro verismo (Una tomba per le lucciole), al poetico dramma (La storia della principessa splendente), Yamada si conferma una delle punte di diamante dello Studio Ghibli, anche con questo fantasioso film ecologista.

Il titolo si riferisce all’epoca in cui è ambientata la storia dal punto di vista dei tanuki, procioni magici del folklore nipponico. Infatti, la narrazione avviene tra il trentaduesimo e il trentratreesimo anno dell’era Pom Poko, nella tribù dei tanuki di Tama. Periodo decisivo, perché la loro montagna sta venendo portata via dall’urbanizzazione, per la costruzione della nuova New Town. I tanuki allora si alleano tra di loro, superando le differenze e attuando diversi piani di azione, che principalmente coinvolgono i loro poteri di trasformismo. Infatti, i tanuki possono trasformarsi in qualsiasi cosa. Tentativo dopo tentativo però i loro sforzi si dimostrano vani e la tribù finisce di dividersi in schiere: una più estremista, guidata da Gonta, e una più moderata, guidata da Shoukichi.

I tre anziani tanuki

Pom Poko è una favola che parla direttamente alla realtà. Con lo sguardo in camera finale, il tanuki Shoukichi rivolge un messaggio direttamente a noi: che fine faranno quegli animali che non hanno poteri magici per trasformarsi? E quindi, fuori dalla favola, tutti gli animali. Takahata usa le favole e le figure del folklore tradizionale per analizzare le devastanti conseguenze dell’urbanizzazione, e quindi dell’addomesticamento dell’ambiente da parte dell’uomo.

Il suo invito sembra essere quello di riconsiderare e riprendere il contatto con la natura, e quindi, di pari passo, anche il contatto con le nostre tradizioni e i nostri miti. Infatti, le sequenze più belle sono la commistione perfetta di nostalgia e onirismo nipponico. E quindi la sequenza della grande processione di mostri, miniera immaginifica di facce, colori, oggetti, che fluttuano nell’aria sotto l’occhio felice e nostalgico dei cittadini, che accolgono volentieri questa incursione di miti creduti desueti nel loro quotidiano. E anche la scena prefinale, in cui i tanuki ricreano con i loro poteri la montagna così come se la ricordano, facendo sì che anche i cittadini rivedano la vita di vent’anni prima, ritrovando paesaggi e persone della loro infanzia, ormai scomparse.

Takahata raggiunge con Pom Poko una delle sue vette visionarie e al contempo pedagogiche. Con la narrazione tipica delle favole e i simpatici protagonisti pelosi, che invece nel folklore possono essere anche malvagi proprio per le loro doti di trasformismo, Takahata sembra voler parlare proprio ai più piccoli, per insegnare a loro, in un modo semplice ed efficace, il rispetto per la natura e per gli animali. Alcune idee appariranno bizzarre, per esempio l’uso che i tanuki fanno dei propri genitali, ma è indubbio il grande impatto visivo del film.

Educativo ma mai didattico, ecologista e divertente, Pom Poko può essere visto piacevolmente anche da un pubblico adulto, che riconoscerà nella gestione della tribù dei tanuki dinamiche politiche e sociali: Shokuichi è infatti il tanuki più moderato e di stampo socialista, mentre Gonta arriverà addirittura a fare un colpo di stato. Il film si può trovare sul palinsesto di Netflix.

Voto Autore: [usr 3,0]

Marianna Cortese
Marianna Cortese
Attualmente laureanda in Lettere Moderne, ho sempre avuto un appetito eclettico nei confronti del cinema, fin da quando da bambina divoravo il Dizionario del Mereghetti. Da allora ho voluto combinare cinema e scrittura nei modi più diversi e ho trangugiato di tutto: da Kim Ki-Duk a Noah Baumbach, da Pedro Almodovar a Alberto Lattuada. E non sono ancora sazia.

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