Hannibal

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Hannibal di Ridley Scott forse è stato uno dei film più attesi del 2001. Sequel de Il silenzio degli innocenti, diretto da Jonathan Demme nel 1991, con un cambio di stile e di regia, ha impiegato dieci anni per arrivare sullo schermo, ma gran parte del ritardo è dovuto anche al tempo dello scrittore Thomas Harris per scrivere il libro.

Hannibal

Proprio come l’attesa per il film, sono passati dieci anni da quando il dottor Hannibal Lecter è fuggito dalla custodia. Sempre dieci anni da quando la promettente recluta dell’FBI, Clarice Starling, lo ha intervistato nel manicomio criminale di Baltimora. Hannibal, incarnato nuovamente con un’eleganza irrefrenabilmente contorta da Anthony Hopkins, adesso è libero e si gode la vita a Firenze facendo il curatore d’arte. Clarice, questa volta interpretata da Julianne Moore, è all’apice della sua brillante carriera, ma dopo un’operazione antidroga finita in tragedia (non per colpa sua), viene messa da parte. Il suo superiore le offre la possibilità di indagare nuovamente su Hannibal per riscattarsi. Ma dietro quest’offerta si nasconde in realtà Mason Verger, un irriconoscibile Gary Oldman, milionario orribilmente sfigurato, unica vittima superstite di Lecter, che vuole vendicarsi. Nel frattempo un ispettore di polizia di Firenze, Rinaldo Pazzi (Giancarlo Giannini) sospetta che il curatore sia in realtà Hannibal Lecter e decide di entrare in trattative con Verger per consegnarglielo e ottenere la ricompensa di 3 milioni di dollari.

Hannibal

Mentre gli eventi oscillano da Firenze a Washington e nella tenuta di Verger nel New England, Hannibal lavora per intensificare l’intrigo, lontano da una semplice caccia al lupo, con una mescolanza di astuzia e terrore, tra un trattato estetico e un ordine mercenario. Pazzi insegue Lecter, a sua volta cacciato da Verger, che usa Clarice per trovare Lecter, che finalmente si presenta per avvicinarsi a lei. Questa rete contorta conferisce al film una dimensione quasi romantica, come una favola nera popolata da poliziotti storti, un mostro senza volto e maiali infernali. In questa configurazione, Clarice è Bella e Lecter è la Bestia, assetata di carne per nutrire il suo cuore puro e il suo corpo in letargo. Questo fascino pervaso di storie a sua volta contamina il film, vestito con una nobile toga di straordinaria bellezza, che segue i percorsi di un cinema viscerale con effetti di forte impatto. Il montaggio parallelo porta Clarice a Verger come in un sogno, poi a Lecter come una fantasia da svegli. Raramente un film ha permesso al regista di esprimere l’intera portata barocca della sua messa in scena, pubblicata sull’altare del cannibale per sposare il suo personaggio, sia bello che terribile. Mentre Jonathan Demme con “Il silenzio degli innocenti” ha intensificato il dramma attraverso la ricerca di primi piani, Ridley Scott – con la netta assistenza del direttore della fotografia John Mathieson – conferisce al film una portata ampia ed epica. Le scene in Italia hanno un fascino sinistro che si accentua quando l’ispettore Pazzi inizia a percepire che il ricco curatore d’arte sia uno dei criminali più ricercati al mondo. L’estetica cupa di Firenze e la bellezza delle immagini fanno girare la testa. Ogni inquadratura è spaventosamente precisa, ogni ambientazione è illuminata come una cattedrale, mentre la musica di Hans Zimmer, accompagnata da un fantastico sound design, si abbina perfettamente.

Hannibal

Anthony Hopkins è incantevole nel ruolo del carismatico cannibale. È perfezione perversa, riesce a fondere gioia, malizia, orrore e black humor con astuta abilità. Questa volta, Hopkins ha l’opportunità di mostrarci la scintilla negli occhi dello psicopatico prima di uccidere, ma anche l’umorismo e la “finezza” del personaggio che lo ha reso famoso e vincitore dell’Oscar per il primo film. Finalmente in Hannibal, il dottor Lecter si fa avanti. Durante il primo film era contento di essere un consigliere, avvelenando il suo mondo diffondendo verità sempre spiacevoli da ascoltare. Qui invece è libero, senza sbarre, agisce come gli pare. E Julianne Moore, in un ruolo più duro, emerge trionfante. Esattamente come la Foster, mette in luce i suoi due lati: bambina spaventata e donna guerriera. Ma la Clarice della Moore mostra un’ulteriore forza e maturità, nonché sensualità. Poiché abbraccia spudoratamente anche la dimensione sessuale della storia, il film tocca i cuori e le viscere dei due personaggi, due facce della stessa medaglia lanciate su un mondo di fetore morale. Lo scenario è pieno di dialoghi affascinanti, con una deliziosa ferocia. Controversa, modificata, alterata.

Hannibal

Nonostante sia visivamente e audacemente sontuoso, Hannibal non è paragonabile alla struggente e fredda bellezza de “Il silenzio degli innocenti”, e non ha di certo la sottigliezza emotiva del suo predecessore. Se dobbiamo metterli a confronto, qui c’è meno atmosfera e tensione. I passaggi disgustosi strappano un brivido di terrore, ma di certo non sono paragonabili al primo. Come sequel potrebbe anche essere una delusione, ma come film di per sé, funziona. Passato dal lato oscuro della forza, questo secondo film è la sua controparte più nobile e aristocratica, cullata da Dante e dall’opera, dalla pittura e dall’appetito per l’eleganza. Trasformato in una creatura quasi soprannaturale, Lecter non è più l’eroe del film, ma è il film stesso. Ipnotico, cerebrale, da incubo, insondabile, imbattibile, quindi irresistibile. La sceneggiatura è come una serie di false tracce, giochi manipolativi e, in definitiva, una storia di vendetta. Il film è stato frainteso per un semplice motivo: tenta un approccio estetico diverso piuttosto che riprodurre l’incomparabile linea del primo film. Ridley Scott prepara una farsa macabra, volutamente eccessiva, in cui Lecter appare una specie di mefistofelico James Bond. Sopraffatto, freddo, agile come un gatto che vaga per il mondo come un cecchino romantico. L’idea migliore è senza dubbio quella di rendere Lecter un esteta estremo che, secondo la Starling, tortura e “mangia tutto ciò che disprezza”, un principio che applicherà alla lettera durante una sequenza finale che è a metà tra l’assurdo e il burlesco. Questa relazione eccessiva con la bellezza e la sua porosità con il male (la corruzione del denaro colpisce la maggior parte dei personaggi) ricorda quella dello stesso Ridley Scott, il cui stile e la cui carriera hanno sempre navigato tra le righe della grafica e della pubblicità, sublimi e appariscenti. La ricchezza formale non è mai stata un vero problema per il regista, designer di formazione, che ha attribuito un’importanza capitale alla direzione artistica sin dal suo inizio. In questo film traspare la messa in scena di fascia alta e lavoro raffinato. Ciò che gli dà un colore molto più alto è la sua storia, di un romanticismo nero e di una splendida poesia crepuscolare.

Voto Autore: [usr 3,0]

Maria Rosaria Flotta
Maria Rosaria Flotta
Laureata in Scienze della Comunicazione con una tesi sul cinema d'animazione. Curiosa, attenta e creativa. Appassionata di cinema, arte e scrittura.
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