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Lavoro a mano armata

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“Non sono mai stato un violento. Non ho mai desiderato uccidere. Ho solo avuto qualche episodio di collera, come tutti…”. Sguardo conficcato in camera, intensissimo, affilato. Testa rasata e fare da galeotto. Quell’uomo sembra avere ben altro da confessare. Comincia così, a ridosso dell’indomito volto di Éric Cantona, la serie tv “Lavoro a mano armata”. Una storia brusca, abitata dalle subdole violenze di un sistema disumano, e da uomini il cui desiderio di scrollarsi di dosso il peso dell’umiliazione è divenuto più forte del proprio senso di giustizia.

“Lavoro a mano armata” è una mini serie francese di soli sei episodi. Solo sei orette scarse per immergersi nella brutalità dei nostri giorni, sempre che non ne abbiate già abbastanza. Per provare a comprendere quanto spesso il facinoroso protagonista dei thriller più appassionanti, la scheggia impazzita che rivendica il suo dannato posto nel mondo, disgraziatamente, ci assomiglia moltissimo.

“Lavoro a mano armata” (Dérapages) prodotta da Arte e acquistata da Netflix, è una serie di quelle che sanno travolgere fin dal principio servendosi di una tensione emotiva costante. Si potrebbe definirla un social-legal-thiller. È la trasposizione cinematografica del romanzo “Cadres noirs” scritto dal parigino Pierre Lemaitre, un vero specialista del noir legato a filo diretto all’attualità.

Lavoro a mano armata

Alain Delambre (Éric Cantona) ha 57 anni, una moglie, due figlie, un genero insopportabile, e un mutuo che reclama il pagamento delle ultime rate. Una vita come tante, una vita sopportabilmente comune. Improvvisamente la sua brillante carriera nel settore delle risorse umane viene spazzata via. L’azienda è costretta ad un taglio del personale, e la sua esperienza sembra non avere alcun valore. La disoccupazione così diviene il suo baratro, la sua ossessione. Alain accetta lavori notturni, precari, sottopagati. Quando un superiore lo prende a calci per essersi accovacciato per pulirsi gli occhiali, Alain reagisce con una decisa, meravigliosa, ribelle testata. Così le cose iniziano a mettersi davvero male: il caposquadra gli fa causa, le rate del mutuo non attendono, in famiglia tutti sanno invitare alla calma, ma nessuno ha soluzioni da proporre.

Quando Alain viene inaspettatamente contattato per un colloquio di lavoro, tutto sembra poter tornare al proprio posto. Quel colloquio deve avere un esito positivo, a tutti i costi. Mentre la moglie Nicole (Suzanne Clément – già vista in “Mommy” di Xavier Dolan) lo mette in guardia dalla brutalità dei metodi dell’azienda che sembra intenzionata ad offrirgli un lavoro, Alain è deciso a riagguantare un brandello di rispettabilità sociale. E pur di ottenerlo è pronto davvero ad ogni cosa.

L’azienda è persino disposta a inscenare un finto sequestro pur di individuare il manager più fedele, sufficientemente freddo da licenziare 1.250 persone.  Ma Alain Delambre non risponde più al comune senso di giustizia, disperato e furioso, è deciso ad accettare la bestialità dell’intero sistema per continuare a sentirsi vivo. “Chi cerca lavoro è in guerra. I vincitori sopravvivono, gli altri muoiono”.

Lavoro a mano armata

Dietro la macchina da presa c’è Ziad Doueiri, il regista libanese già molto apprezzato per “L’Insulto” (il film era stato selezionato per rappresentare il Libano agli Oscar 2018 come miglior film straniero). Quella era la storia di un diverbio di poco conto, che nella precaria stabilità di Beirut, si tramuta in una disputa legale capace di accendere uno scontro mediatico e politico che coinvolge una nazione intera. Un film intensamente umano.

Doueiri non perde nemmeno un grammo della sua innata solidarietà nei confronti del genere umano, trasloca dal medio oriente al cuore d’Europa, e pianta armi e cavalletto in una torbida e inquieta Parigi. Pronto a cedere nuovamente alla tentazione del dramma giudiziario con pathos e arringhe ardenti, appassionate e leggermente lacrimevoli, saprà abbandonarsi alle lusinghe di un cinema armato, eccitato da tensioni thriller e da traboccanti peripezie umane. La sua carriera dopotutto è iniziata proprio come assistente alla regia di Quentin Tarantino, uno che di iperbole, pistole e turbamenti se ne intende assai.

La serie muove i primi passi richiamando il realismo proletario di Ken Loach: la voragine in cui precipita Alain (Cantona) a causa della precarietà lavorativa è proprio quella che divora il protagonista del suo recente e intensissimo “Sorry We Missed You”. Anche la scelta dell’attore protagonista, il rabbioso ex calciatore Éric Cantona, rievoca le pellicole densamente politiche di Loach. Difatti Cantona aveva già lavorato con il regista nel fantasioso e bellissimo “Il mio amico Éric”. Subito dopo l’affondo nella questione sociale odierna, si prosegue con il dramma di inchiesta, per finire con l’invadere territori inaspettati quali il poliziesco e il prison-drama. Sono moltissime le anime che si avvicendano in questa breve, per quanto complessa, narrazione; eppure la regia mantiene costante il livello di tensione, non lasciando mai il tempo allo spettatore di domandarsi se valga la pena accompagnare l’irascibile Alain Delambre fino alla fine.

“Lavoro a mano armata” è anche un riuscito gioco di ruoli. Non si può non lasciarsi solleticare dalle affinità tra l’irritabile Alain Delambre e l’indomabile King Éric calciatore. Delambre/Cantona entrambi pronti a farsi giustizia da sé. L’immagine è indelebile davanti ai nostri occhi: è il 1995, lo stadio è lo Selhurst Park di Londra, un tifoso avversario lo insulta dalla tribuna, Cantona replica con una pedata dritta in faccia. Una mossa simil kung fu indimenticabile. Pagò l’irruenza del “docile” gesto con nove mesi di squalifica.

Il desiderio di risvegliare sempre la magia dello stupore, il desiderio di smarcarsi e lasciare tutti a bocca aperta. È questa la vera vocazione di Cantona. Lo ha fatto citando il Re Lear di Shakespeare durante una premiazione Uefa (qualcuno si sta ancora domandando cosa volesse lasciar intendere). Lo fa oggi nei panni dell’attore: bravo, selvaggio, incazzato e disperato. Credibile, sempre, ad ogni inquadratura. Cantona, con indosso la maglia del Manchester United, aveva un fascino maledetto col pallone fra i piedi. Colpi di genio e colpi di testa, che lo hanno relegato nell’olimpo dei calciatori che non dimenticheremo. Oggi il suo animo da provocatore continua ad incendiarsi e sembra che viva il set esattamente come il campo di calcio. “I film sono come le partite: ti giochi tutto e non devi dare nulla per scontato”.

Lavoro a mano armata

“Lavoro a mano armata” potrebbe sembrare estremo, strabordante, eccessivo. A ben pensare però riesce perfettamente nell’intento di rappresentare con ardimento e onestà l’immorale avidità del sistema economico che governa le nostre vite. La serie non si limita a raccontare l’umiliazione dovuta alla perdita del lavoro, né vuole concentrarsi sulla furiosa ribellione di un uomo ferito. Si spinge oltre, narrandoci le conseguenze, materiali e esistenziali, subite da ogni singolo attore in gioco. Ci si aspetterebbe ragionevolmente un malinconico finale, una qualche resa, un’ammissione di colpa? La sceneggiatura sceglie di invertire nuovamente la rotta, spazzare via ciò che restava del dramma sociale, per cedere nuovamente il passo ad un ritmo carico di tensione.  Un finale narrativamente accattivante, che non teme di svilire l’autenticità della critica sociale che la serie avanza.

Si inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino. Tutto ha inizio da un realismo sociale così ben fotografato da risultare violento. Si continua con un pathos crescente, iperbolico. Si conclude, o si ricomincia, là dove non ci aspetteremmo, o forse dove non vorremmo. Come in ogni storia in-credibile che si rispetti.

Una narrazione che si insinua nelle nostre menti, sgomita tra altre frivole visioni e resta lì, ad occupare il posto conquistato, domandandoci: assecondare un sistema disumano, magari illudendoci di giocare semplicemente la nostra personale partita, non ci rende forse altrettanto disumani?

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Lavoro a mano armata" inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino. Un dramma che ha tutta la brutalità sociale del nostro tempo e la tensione da grande thriller. L'indomito volto di Éric Cantona è perfetto per questa brusca e violenta storia a filo diretto con l'attualità.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.
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