Non sempre le rose fiorite restano tali; al contrario, se sbocciate, capita che durino poco: certo possono resistere, ma tendono ad appassire, a spegnersi naturalmente, sfumano come l’amour sfocato del titolo. Spesso non è colpa del giardiniere, non è nemmeno l’inclemenza del clima, neppure lo sgambetto del destino, semmai è una certa vitalità che fatica a riconoscersi e lentamente viene meno: così per non assistere ad uno strascico di bellezza, ad una finta resilienza o ad una scoraggiante decadenza, il fiore di comune accordo con i nostri occhi ed il nostro sentire, ci abbandona, deciso, sicuro, certo di averci lasciato addosso il migliore dei ricordi e di averci fatto in qualche modo del bene.
Calza parecchio la metafora se la applichiamo al legame tra gli attori Romane Bohringer e Philippe Rebbot, sceneggiatori, interpreti e registi di Amor flou, film del 2018, da noi uscito nell’estate dell’anno seguente, opera in cui travasano con intelligenza e vivacità la storia reale ed insolita della loro separazione. Nonostante in comune la coppia avesse un appartamento due figli, un cane ed un rapporto di dieci anni di cui due in netta crisi, non si assiste ad alcuna scena del tipo Kramer v/s Kramer, La gerra dei Roses o Marriage Story: dunque nessun litigio e nessun tribunale; viene sviluppata al contrario la desueta, ormai quasi impercorribile, pratica del dialogo responsabile, maturo e costruttivo tra due adulti brillanti, un po’ hippie, consapevoli dei reciproci sentimenti mutati, razionalisti e sognatori, profondamente convinti che i loro figli debbano essere tutelati da ogni possibile conseguenza negativa dovuta al cambiamento del rapporto genitoriale, in primis disinnescare la distanza fisica.
Così nasce il separtment, ossia un appartamento creato ad hoc in cui ad un’unica area destinata ai bambini sono collegate due porte che introducono ad altrettanti appartamenti autonomi adiacenti, uno per il padre, uno per la madre. Romane e Philippe traslocano nella nuova casa condivisa e separata insieme, simbolo duale di una fine di un inizio sui generis come i protagonisti: qui la sfida consiste nel ri-prendere le misure della quotidianità e di un’ intimità che includa il reciproco rispetto senza diventare alibi per dar vita a logoranti dipendenze affettive. Bizzarro, ma efficace modo per battezzare una famiglia rinata a nuova forma, proprio in un’epoca mal ossessionata dalle forme familiari.
Commedia dalla perspicacia inaspettata, tra reportage privato, istinto documentarista, ispirazione domestica; ci sono figli reali in scena e famiglie fittizie che tutto lasciano scorrere o che di tutto fanno un dramma: gli ingredienti sono infilati in una confezione all’ apparenza simile alle altre, in realtà sufficientemente dissimile da stupire. Onesta, dedicata, briosa, la relazione indagata offre il fianco ad una veloce, non superficiale empatia ed offre il meglio di sé proprio negli scambi tra i due ex-coniugi, di una franchezza e di una condivisione rare, frutto evidente di una fortunata esperienza personale in cui pur nella difficoltà comune, non si rinfaccia quasi nulla, ma si confrontano visioni, si alternano punti di vista, si sceglie e spesso si osa: Romane vuole potersi innamorare di nuovo, esige nel suo fisico di quarantenne adolescente, la sensualità di ieri, avvelenata dalla consuetudine e dalla mollezza del tempo, mentre Philippe, marxista lennonista, ossia seguace di Marx e John Lennon, come usa definirsi, non disdegna avventure con giovani donne, ma crede nella centralità dell’individuo non dell’amore, poiché la vita non è ciò che si sente, ma ciò che si fa.
“Io sono cerebrale, tu emotiva: vediamo la vita in modo diverso, ci sono voluti otto anni per capirlo, ma sono stati otto anni meravigliosi”. Così chiosa Philippe in uno dei loro scambi centrali: se messi in bocca a moltissime commedie su tema, nostrane ed internazionali, queste parole sembrano noiosi stilemi riproposti, in questo caso non se ne avverte minimamente l’odore; merito probabilmente della verità che le ha macinate, niente di quanto detto è ricercato, niente vuole effetto, sensazione o commiserazione; al contrario rivela un segreto, semplice, beffardo, insidioso che potrebbe aiutare tanti nella stessa situazione.
Sono in molti infatti ad aver apprezzato il film, ad aver lodato lo spirito d’inventiva, la maturità e l’adattamento di questi virtuosi genitori, la soluzione abitativa prescelta viene elogiata esplicitamente dal pubblico esterno, ma anche da voci interne alla scena: Clementine Autain, vera giornalista e politica fuori dal set, nella sceneggiatura preda ideale dei sogni amorosi di Philippe, dichiara come il separtment potrebbe porre fine alla crisi degli alloggi di cui soffrono 180.000 coppie di divorziandi, i quali, non potendosi permettere traslochi totalmente autonomi per motivi economici o di affezione filiale, rinunciano addirittura alla separazione, compromettendo non poco la qualità della loro vita.
Dunque l’amour flou svolge nella sua onesta gittata anche una funzione di ricognizione, auto-organizzazione e miglioramento sociale, contribuendo ad inficiare il luogo comune secondo cui, per ridere in una commedia, tra ex-moglie ed ex-marito debbano volare stracci: è molto più interessante ed utile sentirli comunicare, pur in un momento di debolezza e crisi, fare progetti come se tutto fosse possibile, trovare coscienti o meno nuove alchimie su cui poggiare altre, differenti e non meno importanti fondamenta.
Girato in ventisei giorni, montato e prodotto in sei mesi, il film è spudorato e malinconico, psicologico e filosofico fino a che il sorriso serve, serio quando cerca le parole, lontano dai facili rifugi della psicoterapia collettiva, o da una performance-sfogo dei diretti interessati, altruista e generoso nel restituire la fragilità di un rapporto consumato, ma non estinto, fotografato in un gradevole modificando, in ossequio al motto per cui in natura niente si crea, niente si distrugge, ma tutto si trasforma. L’atmosfera è vitale, così come i dettagli, anche se in essi a detta di Philippe risiede il diavolo, mentre gli entusiasmi e le solitudini, gli up ed i down sono empatici e mai irrimediabili.
Tematicamente stretto sul legame affettivo, familiare e passionale, il film da una parte deborda nei personaggi secondari, eccessivamente sopra le righe, troppo caratterizzati, poco approfonditi, schiavizzati rispetto al messaggio complessivo e alla centralità della coppia protagonista, sintomo di un’insicurezza sulla congettura globale, di cui alla prova concreta non restano tracce allarmanti; dall’ altra scavalca il tabù del glamour di genere, affidando la scena ad una coppia anti-diva per eccellenza, fisicamente non da copertina, che si accalora, si incastra, cena insieme, dorme separata, desidera fisicamente altri ed altre pur non avendo l’armonia patinata, i nasi scolpiti e le posture ipermodellate cui ci ha abituato tanto insipido cinema che con Amour flou ha in comune lo stesso sottotitolo “come lasciarsi e rimanere amici”.
Con un profano anello finale, ad un matrimonio altrui piombato un po’ a caso nei vari fatti, Bohringer e Rebbot consacrano la loro disunione, promettendosi eterna presenza, moneta che dell’individuo è la merce più preziosa: una forma più che dignitosa con cui chiudere l’esperienza, invece che assolvere l’errore, prospettiva quest’ultima da suggerire a tanta comunità odierna, castigata, complessata, colpevolizzata, trincerata dietro la fallace convinzione che con l’amore abbiano sbagliato partita.