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I due papi

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A volte le speranze, per quanto scherzose esse siano, diventano realtà: qualche tempo fa i social network erano invasi da immagini che rappresentavano i due attuali pontefici, l’emerito Benedetto II e l’attualmente in carica Francesco, rispettivamente con le sembianze dei due popolari attori Anthony Hopkins e Jonathan Pryce. Chi avrebbe mai pensato che un fotomontaggio, nato come un gioco, si sarebbe poi trasformato nelle effettive scelte di casting per una pellicola incentrata sul rapporto tra i due uomini di Chiesa? Netflix, da sempre attenta a quanto gira su internet e alle aspettative degli utenti (come dimostrano anche le pagine promozionali della piattaforma), ha colto la palla al balzo e nel settembre del 2017 ha avviato la produzione de I due papi, titolo che fin dall’esplicativo titolo mostrava l’intenzione di concentrarsi su una delle fasi più complesse dell’epoca ecclesiastica contemporanea, e il successo di critica e pubblico non è tardato ad arrivare, come dimostrano le tre candidature ai premi Oscar che il film ha ricevuto per l’ormai prossima edizione della cerimonia.

Con tutte le libertà narrative del caso, ma senza la ricerca di scampoli provocatori e scandalistici, I due papi offre un ritratto inedito dell’ipotetica amicizia tra Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger, ambientando la storia nel corso degli anni. La narrazione ha inizio nell’aprile del 2005 quando, in seguito alla morte di Wojtyła, il cardinale argentino viene richiamato a Roma per partecipare all’elezione del nuovo pontefice, essendo egli stesso tra i principali candidati alla successione. Il suo principale avversario è proprio “il tedesco”, che vince per numero di voti e conseguentemente eletto nuovo Papa. Sette anni più tardi la Chiesa si trova coinvolta in diversi scandali e Bergoglio, pronto a dimettersi dal suo ruolo, è convocato dal pontefice a Castel Gandolfo, dove spera di far firmare al Santo Padre la lettera che lo liberi dal suo incarico. Ma al suo arrivo, pur al netto di accese discussioni e diversità di vedute, Bergoglio trova nell’ormai chiamato Benedetto XVI un uomo stanco e sfiancato dai recenti eventi, scoprendo giorno dopo giorno le sue reali intenzioni. Tra i due uomini si sviluppa così un’impensabile e rispettosa amicizia che sarà destinata a cambiare per sempre il corso del cristianesimo.

I due papi sorprende fin dal prologo, nel quale assistiamo ad un’improbabile telefonata del neo-pontefice Francesco per prenotare un biglietto aereo: bastano pochissimi secondi e l’atmosfera del film si instrada su un’inaspettata leggerezza, elemento che caratterizzerà buona parte della visione. Già nel primo incontro/scontro tra gli inizialmente rivali, con rimandi musicali a hit come Dancing Queen degli Abba, si respira un’atmosfera da elegante commedia da camera, con gli accesi battibecchi e scambi di vedute che lasciano campo aperto a battute figlie di un humour fine e quasi british nei suoi sbocchi. La prima mezzora, che opera tramite immagini di repertorio e filmati di telegiornali nel ricostruire il relativo periodo storico (comunque a noi vicino e ben impresso, credenti o meno si sia), ci accompagna nelle stanze del Vaticano per l’elezione del futuro pontefice e si ammanta di istinti politici nella scalata al voto da parte dei principali candidati, con ovviamente Bergoglio e Ratzinger sugli scudi. La messa in scena opta per una duplicità di schemi e ricerca la solennità attraverso soluzioni pop che si adattano inaspettatamente bene alla rappresentazione degli eventi, trasportando appieno nell’universo filmico al centro del racconto.

E poi, poi arriva quella svolta a metà visione che non ti aspetti. Perché se I due papi parte come una rappresentazione incisiva, frivola e matura al contempo, della relazione tra due icone smitizzate e riportate su confini terreni, nella seconda metà percorre un profondo viaggio drammatico nelle ferite mai chiuse della dittatura argentina e delle migliaia di morti alle quali Bergoglio ha assistito come una sorta di testimone passivo, preferendo il compromesso (giustificato dalla volontà di salvare più vite possibili) ad una presa di posizione dura e netta nei confronti del governo. Un lungo flashback ci trasporta così in un passato doloroso che utilizza in alcuni passaggi (prima della definitiva chiamata dell’onnipotente) il 4/3 e il bianco e nero per poi espandersi a schermo pieno e alla luce del colore: per quanto necessaria ai fini degli eventi, questa lunga digressione temporale toglie omogeneità all’insieme e presenta un sostanziale cambio di ritmo e atmosfere che spiazza lo spettatore. Questa rimane ad ogni modo l’unica, parziale, sbavatura di un film ricco di sfumature e sorprese, ricolmo di gag gustosissime (vedasi il siparietto calcistico nello scorrere dei titoli di coda, perfetta chiusura del viaggio) e diretto con sicurezza dal brasiliano Fernando Meirelles, già regista del magnifico City of God (2002) e dell’ispirato adattamento del romanzo di Saramago Blindness – Cecità (2008). Il maggiore punto di forza rimane comunque nella straordinaria alchimia tra Pryce e Hopkins, capaci di ricalcare con grintosa personalità due alter-ego a forte rischio over-acting nell’accentuazione delle differenze tra le reali controparti.

Voto Autore: [usr 3,5]

Maurizio Encari
Maurizio Encari
Appassionato di cinema fin dalla più tenera età, cresciuto coi classici hollywoodiani e indagato, con il trascorrere degli anni, nella realtà cinematografiche più sconosciute e di nicchia. Amante della Settima arte senza limiti di luogo o di tempo, sono attivo nel settore della critica di settore da quasi quindici anni, dopo una precedente esperienza nell'ambito di quella musicale.
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