Coproduzione italo-belga per l’opera prima firmata da Alessandro Tonda, cosceneggiata insieme a Davide Orsini e presentata in selezione ufficiale alla scorsa Festa del Cinema di Roma: titolo The shift, ovvero il turno, ma anche, il cambio, il cambiamento.
Di chi il turno? Di un’ambulanza che metaforicamente non smonta il proprio turno di notte, addentrandosi in una mattinata da incubo in cui vedrà in faccia la morte e la paura di chi la osanna come mezzo per ottenere ascolto.
Cosa cambia? Il ruolo, da vittima a carnefice, da innocente a colpevole, ed in generale l’attenzione su un problema trattato in modo conformistico, la sintesi di rimando di un’esperienza collettiva, non ancora definita, la cui dolorosa scaturigine profonda non ha ancora trovato spazio di discussione o approfondimento costruttivo.
The shift – TRAMA
A Bruxelles, un’ambulanza guidata da Adamo (Adamo Dionisi), immigrato italiano, e da Isabelle (Clotilde Hesmes), mamma di un ragazzo di origine araba, viene reclutata d’urgenza di prima mattina, a fine turno notturno, per accorrere in un liceo dove è avvenuta una forte esplosione. Qui due coetanei adolescenti, gli arabi Abden ed Eden (Adam Amara) stanno commettendo un attentato: il primo si fa saltare in aria morendo sul colpo, il secondo resta ferito.
Quest’ultimo viene caricato da Isabelle ed Adamo, entrambi giunti sul luogo per i soccorsi, ignari di chi abbiano preso con loro a bordo. Nel medicarlo, la donna scopre che il ragazzo ha ancora indosso la cintura esplosiva; da quel momento l’ambulanza diventa pedina del giovane attentatore che, pur malconcio e preda frequente di deliri religiosi, la sequestra e le impartisce ordini, sempre con il dito ad un soffio dal premere il detonatore.
The shift – Recensione
Thriller frenetico, consumato nell’habitat urbano di una Bruxelles composta ma in allarme, amorfa eppure riconoscibile, sedata dal grigio che lenisce il dolore ancora vivo degli attacchi terroristici mittleuropei: The shift mette sotto assedio la tranquillità dello spettatore da subito con un primo piano sequenza che ricostruisce l’attentato, evento improvviso, incipit che spiazza la scena, devasta ed aliena al tempo stesso l’occhio di chi guarda e la tranquillità spensierata delle vittime precipitate inermi ed inconsapevoli in una trappola infernale. Ben poco indugio sul dettaglio della strage e poi corsa veloce sui due protagonisti, inconsapevoli di prendersi il nemico addosso, tanto quanto il pubblico è a sua volta inconsapevole che quel ragazzino filiforme possegga esplosivo e detonatore appiccicati sull’addome.
Il resto è costruzione della tensione e mantenimento implacabile della stessa: macchina a spalla ed inquadrature scomposte per una visione frammentata, febbrile e convulsa, che non si altera mai, né cede all’astratto, restando ancorata alle sbandate della guida, alle recriminazioni di Eden, agli occhi lucidi e cerulei di Isabelle, alla parlata sconnessa e brusca di Adamo. La regia squadra, sfoca, rimanda e rimpalla volti, profili e sguardi, occhio indiscreto in una situazione limite di quelle in cui non si sa mai cosa possa accadere.
In questa roulette russa, con il lampeggiante si scontrano/incontrano le contraddizioni di un problema causato ed ignorato, la mancata integrazione di una minoranza schiacciata, sospettata, isolata, nel migliore dei casi mal tollerata, che nell’indottrinamento trova un senso di sé, un proprio posto nel mondo e nella vendetta suicida ai danni della generica collettività occidentale, il riscatto per ciò che non ha avuto in patria (natale o acquisita). Qui il disagio non ha solo a che fare con integralismi esplosivi, ideologie specifiche, ingiustizie sociali o kamikaze obnubilati, ma con le debolezze di un adolescente, la fragilità di chi si ritrova messo all’angolo prima ancora che gli sia stata data la possibilità di provare.
Eden è il figlio che si poteva avere, o che non si è ascoltato, è l’immigrato sfortunato che non ha trovato lavoro come guidatore di ambulanza, è il compagno di classe cui si è indifferenti, è il giocatore di calcio che, anche se ci sa fare, non vuole giocare a pallone, è il criminale che non si vorrebbe abbattere, arma perfetta da caricare contro i miscredenti, volto debole della minaccia.
Così The shift ingloba e sposta lo sguardo sul problema, facendoci sentire il polso del dietro le quinte, senza insistervi drammaticamente; guarda il male non come un cecchino verso il punto illuminato dal raggio laser, ma come coabitante del medesimo pericolo: stesso pianeta, stesse sventure, stesse, alterne, fortune. La paura domina tutti, a maggior ragione se si hanno solo diciassette anni; si capisce poco del senso dei versi imparati a memoria, mentre la voce li scandisce roca, graffiata ed affaticata, dimostrando più anni di quelli che le appartengono, ed esce da labbra insanguinate suonando come profetica parabola di collera.
Una generazione di senza età, alla guerra per volere di Dio, martiri sulla parola e sui loro pochi anni: The shift concentra in un genere ad alta tensione alcune tra le contraddizioni più basilari del fondamentalismo. Vulnerabilità umana, ricatto religioso, rivalsa sociale, una miseria interiore ed esteriore che annienta i profili di ogni orizzonte: non è una strage delle armi come l’America ci ha insegnato tristemente a conoscere, non è disagio psichico dell’età di mezzo o abisso nero della mente, è letale affermazione di vita, violento disprezzo religioso, sconfinatissimo terrore del dopo, del nulla, del niente da perdere.
The shift vanta una meritoria non attenzione al sangue sparso, al fascino melo del movente tragico, mentre distingue chiaramente le trincee in conflitto. Da una parte ci sono i tratti e le modalità che ci raccontano come si sviluppa e si affronta istituzionalmente il problema terroristico: fuga nella città messa in stato di assedio, truppe speciali ad ogni angolo, posti di blocco, mimetiche, cani, elicotteri, alla disperata ricerca del colpevole fuggiasco, ambulanze -mai troppe- in slalom tra cartelli stradali, braccate tra deviazioni di sicurezza, traffico congelato e rumori di sirene ipnotizzanti, tono duro e apparentemente distaccato del commissario che conduce le indagini e regola l’acceleratore delle varie operazioni speciali armate.
Dall’altra c’è la cabina della vettura dei paramedici, in cui si consuma il dialogo umano, centellinato e scandito da sguardi sostenuti, tra un giovanissimo disperato, manipolato, non capito dai propri genitori, minimizzato nelle proprie aspirazioni, sorpreso e terrorizzato di essere ancora vivo, e due adulti che cercano di salvare la vita a lui e a se stessi.
Scelta furba e tipica del genere quella di un setting principale teatrale, uno spazio chiuso, in movimento, possibile bersaglio per altri o di altri, veicolo che dovrebbe portare e distribuire salvezza e che in questo caso è carico di odio.
The shift – Cast
Cast dai volti iconici, eterogenei, che si mescolano senza armonia apparente e si restano accanto alternando doloroso distacco ad empatia profonda: Isabelle dolcemente decisa, Adamo burbero ed impulsivo, Eden lunare e sfiancato, fisicamente sospesi, con l’urgenza non di dire ma di trasmettere lo sfinimento di una situazione terrificante ed esemplare, tra allerta costante e sbando interiore.
Così tra le sillabe confuse dedicate ad Allah, Eden cerca il coraggio di fare quello che non ha fatto, Adamo scruta il limite rischioso della situazione e fatica a mantenere i nervi saldi, Isabelle osserva da vicino un distributore di morte solo ed estenuato, che avrà l’eta del figlio: in questo microclima che non va oltre, non permette l’assoluzione, nè la consolazione, The shift tratteggia il corto circuito della paura inascoltata, il veleno ed il suo antidoto, la necessità di guardare in faccia il male per uscirne vivi, sempre trattenendo il fiato.