A Parigi, quel giorno d’estate, potremmo incontrare David (David Lacoste), poco più che ventenne, fisico sottile e nervoso, capelli spettinati e occhi buoni e magnetici, a spasso in bicicletta, mentre attraversa da una parte all’altra la città, per accogliere i turisti che ospita nelle sue stanze bed and breakfast, o per andare a potare qualche area verde comunale alla bisogna; lo potremmo sorprendere, con il suo atteggiamento un po’ Peter Pan e un po’ mago rimediato, quando incontra Lena (Stacey Martin) giovane pianista inglese, sua nuova fiamma incontrata casualmente proprio grazie alle camere che affitta, o quando piomba a casa della sorella maggiore Sandrine (Ophelia Kolb) per chiacchierare con lei e scherzare con la nipote Amanda (Isaure Multrier) di 7 anni in mezzo a lunghi sorrisi.
A Parigi, inseguendo David e la sua fitta, comune, tranquilla quotidianità, potremmo imbatterci nei boulevard di un’estate assolata come poche, nella sagoma imperiosa ed affascinante del Louvre, nei romantici ponti lungo la Senna che accolgono i barconi carichi di stranieri e non stranieri in cerca della tipica magia francese, oppure potremmo sorseggiare caffè chiacchierando alla finestra, incantarci a guardare strade di quartiere, comprare dolci o baguette al nostro bar preferito, e non pensare, neppure per un momento, che la nostra vita, così piccola e così speciale, precaria in tutto fuorché nei sentimenti di e per chi ci circonda, possa mai, veramente, cambiare luce, diventando altro.
Sarà perché al brutto non si pensa mai finchè non lo si ha in casa, eppure anche l’imprevedibile, l’indicibile, l’insostenibile, succedono ed è difficilissimo capacitarsene. Così David, orfano di padre, abbandonato assieme alla sorella più grande dalla madre in un passato da non ricordare, eterno ragazzo, felice nel suo presente fluido, sospeso nel suo avvenire vaporoso e sbarazzino, padrone irresponsabile di sé come può accadere a qualsiasi ventenne di oggi, all’interno di una grande capitale europea, impatta il tragico impensabile: un attentato terroristico in un parco parigino si porta via molte vite compresa quella della sorella Sandrine.
Tutto il tempo si compatta attorno al ragazzo e gli precipita incontro, a formare un’unica rivoluzione rispetto alla quale bisogna prendere una decisione importante. Chi resterà accanto alla piccola Amanda?
Diventare grandi è sempre un trauma; a maggior ragione se ci coglie in modo vigliacco e crudele come accade in questa dolce, difficile, dolorosa e rispettosissima storia, piccolo gioiellino francese, presentato alla 75. Edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti, firmata da Mikael Hers e molto apprezzata da critica a pubblico, al punto di ricevere due candidature ai Cesar.
Accorto, sensibile, il più lontano possibile dall’esibizionismo, senza un filo di retorica o di già visto, Hers costruisce una cornice di bellezza e luce, nella sua amata città d’origine, nella stagione da lui più frequentata ossia l’estate, tempo per antonomasia di passione, di ricordi e di respiro difficile e immerge tutto nel tematica del distacco.
Distacco da una persona amata che rappresenta il centro delle sicurezze del protagonista, distacco dall’innocenza di un età adolescenziale protratta oltre il dovuto per bisogno e per indole contemporanea, distacco dall’immagine di una città non più cartolina perfetta, costretta ad immettere paura e violenza nel suo vissuto quotidiano e conviverci. Sono tre modi di diventare adulti, all’interno di un mondo terribile ed incerto che invece di avallare e costruire, scardina e priva, lasciando soli e disorientati.
David si ritrova ad essere padre e madre non sapendolo né desiderandolo, lui che i genitori li ha visti poco o nulla, che non ha le parole, il tempo, la disciplina della maturità, lui che non è saggio, non è il massimo degli esempi, non è ordinato, non sa cucinare e agisce d’impulso; lui che trattiene più che esprimere, mentre Amanda sembra non avere paura di dire e di fare niente ed è il suo antidoto e la sua criptonite al dolore, al giusto e all’ingiusto, all’incomprensibile che scavalca il comprensibile, forte e fragile, drammaticamente scissa, tanto quanto lui, tra ricordare ed andare avanti.
Memoria e futuro sono i poli tra cui oscilla in punta di piedi questo dramma familiare che parte come commedia stemperata e scivola naturalmente in altro: un’elaborazione del lutto imprevista che si muove sulle coordinate quotidiane di oggi, in cui non si hanno formule, né discorsi, né itinerari precisi per uscire dal tunnel, ma si avanza a sensazione, secondo geometrie variabili, illuminazioni progressive, peggioramenti improvvisi, rialzate miracolose, abbracci muti, anche a distanza, che sorreggono oltre gli sguardi, e vanno al di là dei rapporto di sangue.
La barbarie casuale, così come la paura questo fanno: accomunano tutti nello stesso sentimento implicito di solidarietà, che fa sentire vicini e fa riconoscere nell’altro la nostra stessa identica ferita.
Da una parte abbiamo il racconto indiretto, a tratti onirico, di una città colpita, assolata e desolata, improvvisamente silenziosa e deserta, sanguinante non si sa bene dove, sofferente di fronte alla stagione più spensierata, che prende coscienza dell’accaduto lentamente, per deduzione soggettiva dagli occhi alienati di David, testimone indiretto della sciagura; con questa grazia pregevole viene evocata una metropoli che si accascia nell’ immaginazione del protagonista, senza arenarsi in una banale ricostruzione cronachistica, una comunità che si lamenta sottovoce e non prende mai del tutto la scena restandone ai margini e rimettendosi man mano in piedi, assieme alla sua popolazione multietnica superstite allo shock del lutto collettivo.
Dall’altra parte troviamo il cuore della storia: un ragazzo che diventa uomo, un uomo che diventa padre e il modo indecifrabile secondo cui da disgrazie nascono vincoli profondissimi e stretti oltre il ragionevole sentire.
Drammaticamente misurato, privo di ogni accento strappalacrime, girato con l’intelligenza necessaria per alludere senza descrivere, il film riesce a far riflettere in punta di piedi, con la stessa profondità e naturalezza di un dramma cecoviano; assenti intrusioni o artefazioni di sorta, scorrevole e sorprendente nel suo arco narrativo intimo dagli echi universali, lanciato dal candore e dalla spontaneità di Vincent Lacoste (apprezzato anche nel più recente Mois jours de gloire sempre in concorso a Venezia, nella sezione Orizzonti della scorsa edizione) e della giovanissima Isaure Multrier, “Quel giorno d’estate” è una riconciliazione con uno strappo che ha segnato e sta segnando una generazione, dal Bataclan in poi, non solo a Parigi, ma anche a Bruxelles, Berlino o Londra, in cui da anni l’allerta terrorismo è normale amministrazione: da una destabilizzazione forte ad un tentativo di riequilibrio umano, che cicatrizza il passato uscendone più povero e più ricco.
A volte bisogna arrendersi o sfiorare la sconfitta definitiva, per poter rinascere.
Voto Autore: [usr 3,5]