La società è un fatto complesso. Il dolore no. L’ideologia è (era?) un’arma a doppio taglio. La violenza un’arma e basta. Katja (Diane Kruger) perde il marito Nuri e il figlio Rocco, improvvisamente, in una sola tragica notte: uniche vittime di un attentato dinamitardo che sventra l’ufficio in cui si trovavano, in una zona ad alto tasso di concentrazione di immigrati turchi, all’interno di un distretto periferico ad Amburgo. E’ una notte piovosa dell’ottobre 2016.
Nuri (Numan Acar) era un kurdo, ex-spacciatore, uscito di prigione e perfettamente reinserito nella società da anni. Si pensa ad un regolamento di conti tra bande di trafficanti con cui la polizia crede che l’uomo non avesse mai interrotto i contatti. Ma Katja smentisce questa ipotesi con veemenza: era pulito, lavorava come consulente fiscale, traduceva documenti e vendeva biglietti per la Turchia, tutto qui. Le indagini vagliano la possibilità di un atto terroristico di matrice islamica, ma la moglie conferma che Nuri era agnostico. Si pensa ad una vendetta della mafia straniera, turca, kurda o albanese, ma non si riscontra nessuna prova. Viene perquisita la casa delle vittime, senza esiti probanti, tranne alcuni grammi di droga destinati ad uso personale, leggasi per sostenere il feroce dolore che ha stravolto la vita della donna.
Katja è sola, vuole restare sola, annega nell’angoscia della perdita, quando una telefonata dell’amico avvocato Danilo Fava (Denis Moschitto) l’avverte che i colpevoli sono stati trovati e sono esattamente quelli che lei aveva ipotizzato fossero fin dal primo giorno, ossia i nazisti: una coppia di giovani seguaci di Hitler, che hanno premeditato e portato a compimento l’orribile strage per odio ideologico, razziale e xenofobo, secondo i dettami del partito cui appartengono.
Katja decide di resistere all’irrimediabile e di continuare a vivere per ottenere giustizia, sia all’interno dell’aula di tribunale, costituendosi parte civile nel processo di primo grado che vede imputati la coppia di assassini, sia al di fuori ed oltre ciò che i tempi ed i modi della giurisprudenza non riescono a preservare.
Netto, essenziale, di non tenera digestione, il film contiene una Diane Kruger (Premio come miglior attrice al festival di Cannes 2017), simile ad un’erinni contemporanea, implosa e tatuata, interprete eccellente della ferita più crudele che esseri umani abbiano sventura di sopportare: quell’abominevole, vigliacco, violentissimo strappo dai propri cari che solo un gesto terroristico è in grado di porre in essere con annessa asfissiante qualità della vita per chi sopravvive.
La vicenda è ispirata alle reale uccisioni perpetrate dalla frangia di estrema destra del Nationalsozialistischer Unterground, partito neo-nazional-socialista dai chiari intenti omicidi rivolti contro l’etnia non-tedesca, che agì indisturbato per quattordici anni prima di essere condannato in via definitiva e smantellato, falcidiando, nel frattempo, vite innocenti di ignari cittadini, poliziotti, e bambini: l’attentato con una bomba artigianale chiodata a Colonia in un quartiere di immigrati, è l’episodio di riferimento.
Fatih Akin, figlio di immigrati turchi, esempio di seconda generazione pensante, vincente ed operante proprio nel cuore dell’Europa, ne guida determinato la regia: conosciuto per l’ironia e la lucidità di film originali e dolenti come Soul Kitchen o la Sposa Turca, sempre roteanti intorno a tematiche di appartenenza, identità e comunità, Akin si esprime qui in modo mirato e denso, aggirando la ricostruzione cronachistica, insistendo sull’agonia processuale e personale, fino al disperato, unico, possibile finale.
Il suo stile unisce due continenti dalle temperature differenti (Germania e Turchia) in un unico flusso conflittuale, senza sbavature o retorica di stile, secondo una geometria non insolita, ma onesta. Sceglie infatti una tripartizione strutturale, che rimanda nella forma all’architettura delle tragedie greche ricalcandone l’epos drammatico anche nel contenuto; ogni sezione è scandita da un titolo, la famiglia, la giustizia, il mare, dal concreto all’astratto, dalla terra al cielo, in un percorso di catarsi ed espiazione che preannuncia una posta sempre più alta ed un’ombra sacrificale ineluttabile.
Ognuno dei tre momenti è preceduto da filmati di vita reale, che acuiscono dolore e determinazione, giustificando la rabbia, lo strazio e le rispettive cecità, nonché l’insopportabilità del destino e degli atti umani.
Tornano alla mente gli attentati subiti dalla Germania non solo ad opera di neo-nazisti, ma anche di fanatici religiosi; città come Monaco e Berlino, coacervo di etnie e teatro di stragi, l’organizzazione criminale ed i cani sciolti; ed anche il Batclan parigino (in proposito si può citare il recente Quel giorno d’estate), l’isola norvegese di Utoya (su cui altrettanto recente è il film 22 luglio), il concerto di Manchester, ed altre lunghe tristi liste di consacrazioni violente, fondamentaliste e razziste, interdipendenti fra loro, con cui l’occidente europeo fatica a prendere le misure.
Innegabile è la trasversale riflessione che Akin induce a compiere sul concetto irrisolto di integrazione ed emigrazione, sul rapporto conflittuale tra straniero-non straniero, su come il malessere accentuato nella vita sociale si traduca in violenza verso gli ultimi arrivati, capri espiatori di ciò che non funziona più, destinati a non alzare mai la testa, pena ciò che accade a Katja.
Ma vittima è il popolo che si arma contro se stesso: se a morire, infatti, sono un kurdo e suo figlio, a soffrire il danno più grave è una tedesca, dunque chi perde? Una minoranza meticcia, universalmente instabile, paga il prezzo imposto da chi? Un’altra minoranza razzista e furente; uno stato germanico che stenta a prendere le distanze dal proprio esecrabile passato; una democrazia che in quanto dittatura della maggioranza, offre più facilmente riparo ad alcuni movimenti radicali ma autoctoni, che ad altro.
La giustizia di Katja è personale, provocatoria, incondivisibile e condivisibile al contempo; è emblematica del sentimento resistente in chi subisce perdite simili: non conosce bandiere, né cittadinanze, non accetta garanzie, non attende rassegnata, non si placa, veste di nero, fuma molto, parla poco e se lo fa, piange e dice, fulmina con occhi infiammati ma color ghiaccio, non può perdonare, non può perdonarsi, deve andare, inevitabilmente, oltre. Come fa questo thriller, secca ferita aperta e non anestetizzata che penetra lenta ed inesorabile verso la china.
Golden Globe 2018 come miglior film straniero, cattura la memoria, per scheletrica ed evidente capacità di raccontare il dolore, vissuto da una donna, non più moglie né più madre, arcaico ed universale, come e più della catastrofe irragionevole da cui proviene. Il dramma spegne il giorno, instaura un regime notturno: oltre la notte si deve navigare per arrivare alla pace (forse non solo propria), indipendentemente dalla destinazione e qualunque sia il suo prezzo.