“Sai qual è la cosa più giusta del mondo? È il sole”. Non mi spiegò il perché, rise e basta.
“A Sun” è una storia che prende vita sotto la pioggia torrenziale nella notte di Taipei, per poi riposarsi sotto ad un tiepido sole che sembra non poter asciugare via il rimorso. Si rimane così sotto la luce ancora un po’, sperando che questa possa irradiare con il proprio bagliore tutto quanto. Ma anche alla luce del sole si possono compiere scelte sbagliate, e allora si rimpiange la possibilità di ricercare consolazione nell’ombra. L’importante è ricordare di non rimanere lì troppo a lungo.
“A Sun” di Chung Mong-hong è stato presentato al Toronto Film Festival e candidato ai Taipei Golden Horse Film Festival and Awards dove si è accaparrato numerosi premi. Il regista taiwanese già nel 2013 era stato selezionato dall’Accademy per rappresentare il proprio paese agli Oscar con il suo horror “Soul”. Nel 2019 Mong-hong torna prepotentemente e legittimamente a far parlare di sé con questo suo denso e ipnotico dramma familiare. “A Sun” è un concentrato di vita e morale, diluito in due docili ore e mezza che vi parranno trascorre in pochi emozionati attimi.
In questa pellicola si trova un po’ del pudore di Ozu, un po’ della poetica contrarietà di Jia Zhang-ke (Il tocco del peccato, I figli del fiume giallo), un po’ delle luci malinconicamente colorate di Diao Yinan (Il lago delle oche selvatiche). Ma in “A Sun” c’è soprattutto il desiderio di sfiorare gli animi, senza mai strattonarli: si attende che i personaggi siano pronti per portare a termine le loro scelte, si resta in attesa che anche la nostra emozione di spettatori possa sostenerli nel loro procedere a tentoni. Un film che non si affretta, che concede tempo, che offre spazi vuoti su cui ri-costruire, anche a seguito degli errori più imperdonabili.
Il Sole di Mong-hong sorge là dove non si vede, tra le luci notturne della metropoli e gli impermeabili gialli di due giovani ragazzi. Una corsa in sella ad un motorino rubato che si conclude con un vendicativo colpo di machete, un colpo secco che recide la mano di un ragazzo colpevole di non si sa di quale torto. I due vengono arrestati e sbattuti in riformatorio per diversi anni, in un grigio e apatico mondo dalla ferocia del tutto simile all’universo carcerario degli adulti. Radish (Liu Kuan-ting) e A-Ho ( Wu Chien-ho) sono giovani insoddisfatti, con la medesima scottante ribellione che gli scorre dentro, con la stessa incapacità di elaborare i conflitti che si animano nella loro testa. Eppure c’è qualcosa di profondamente diverso in loro.
Radish è violento, manipolatore, sembra consapevole dell’ineluttabilità del suo tragico destino. E così non chiede mai scusa, non prova nemmeno a cambiare, decide di giocarsi la partita fino all’ultima mano pur sapendo di non poter contare su buone carte. A-Ho è diverso. È stordito, confuso, non sa da cosa derivi la sua rabbia. Ostinato lo è stato fin da piccolo, cresciuto all’ombra di un fratello perfetto, ha imparato a puntare i piedi per far sentire la sua voce. Sgomita da anni perché la famiglia lo accetti, affinché la società gli offra un’occasione, perché la sorte gli indichi il suo posto.
Cosa accade alla famiglia dopo l’arresto di un figlio? Quale forza distruttrice inizia ad animarsi famelica intorno alle loro vite? È il rimpianto per le cose non dette a divorare ogni cosa: è il rimorso per quelle parole pronunciate male, è lo sguardo colmo di disapprovazione che le famiglie “in cui certe cose non potrebbero mai accadere” rivolgono a genitori immobili per il dolore.
“A Sun” racconta di come alcune famiglie possano essere scaraventate via in un attimo, schiacciate dall’impossibilità di pagare il risarcimento in denaro alla vittima e calciate via da un grido d’aiuto che resta inascoltato. Della famiglia di Rashid non sapremo mai niente: solo la notizia che in quella casa dopo il suo arresto non vive più nessuno. Una volta scarcerato possiamo facilmente presagire che anche per la sua cocciuta arroganza saranno tempi duri.
Altre famiglie invece tentano in tutti i modi di restare in piedi. I genitori di A-Ho quando il figlio minore finisce in riformatorio rimangono tenacemente appigliati ad ogni briciolo di dignità e rigore che possono agguantare, lasciando sul figlio maggiore A-Hao tutto il peso delle aspettative familiari, in termini di rispettabilità e lustro sociale. Ma ogni zona d’ombra dovrà essere brutalmente illuminata per poter lasciar intravedere una nuova strada. Le conseguenze delle scelte prese dai veri membri della famiglia avranno un costo più crudele del previsto.
Il padre di A-Ho (un meraviglioso Chen Yi-wen) è un padre dall’andatura incerta ma dalla severità intransigente. Taciturno, non esprime altri sentimenti se la testarda delusione nei confronti di quel figlio che non si è lasciato educare, che ha rifiutato gli si proiettasse sopra un qualche sogno di riscatto paterno. Sul suo viso di padre possiamo leggere tutte le preoccupazioni represse, tutti i sogni di un uomo che non hanno mai trovato il coraggio di compiersi. La madre (Samantha Ko) è una donna motivata da un’enorme quantità di amore. Si concede solo qualche comprensibile cedimento prima di dedicarsi con devozione alla cura di ciò che resta della sua famiglia. È la sola ad essere indaffarata in progetti futuri, perché nonostante tutto non si può smettere di pensare a un domani, confidando che questo sia anche solo infinitesimamente migliore di oggi.
“A Sun” è emotivamente sconvolgente e riesce ad esserlo con una naturalezza inaspettata: il racconto si prende le sue soste, estranee, oniriche, che si palesano soprattutto con l’entrata in scena del figlio maggiore A-Hao (Greg Hsu). Saggio, sensibile, sarà lui a trovare una poetica epifanica risposta al quale sia davvero la cosa più giusta in questo mondo.
“A Sun” è una terra in cui ogni raggio di luce e ogni terreno lasciato in ombra sono frutto di una scelta. Ci sono scelte che annientano, scelte che provocano un repentino cambio di rotta, scelte che conducono dove proprio non ti aspetti. Il film di Mong-hong è un gioco di riflessi, come un fascio di luce che si infrange su di uno specchio. È necessario abbandonarsi alle riflessioni che le immagini suggeriscono, e non spaventarsi ad un flusso continuo che si appresta a cambiare direzione più volte. Una regia controllata, mai sopra le righe, ma leggera, a tratti lirica.
“A Sun” è costellato di mutazioni: ci sono allontanamenti e riunificazioni, sentimenti in trasformazione e scelte irrimediabili, frasi motivazionali ossessive che lasciano spazio a clementi silenzi. Il regista scava negli animi emozionati dei personaggi, servendosi delle suggestioni del cinema di genere e di una sotterranea ironia che stride magnificamente con la tensione emotiva del momento, lasciando un inaspettato sorriso e colpendo al cuore l’eccessivo lirismo di molto cinema sentimentale. La regia si frantuma per descrivere un mondo andando in pezzi a causa dei rimorsi e della mancate opportunità, per poi ricomporsi nelle scene in cui i sogni o le parole sanno ricucire ciò che sembrava perduto.
La fotografia è curata dallo stesso regista (nei crediti appare con lo pseudonimo di Nagao Takashima). Il verde rigoglioso della natura che sovrasta le aree periferiche di Taipei, è rintracciabile negli interni dell’abitazione di famiglia di A-Ho, e fa da sfondo persino alla toccante confessione del giovane durante il periodo di carcerazione. “A Sun” si rivela così un costante dialogo fra l’esterno e l’interno, fra l’urbano e l’umano, fra il mondo là fuori e quello più intimo. Lo sguardo di Chung Mong-hong insegue più orizzonti: le inquadrature dall’alto sul traffico di Taipei, e i primi piani su quei volti che disgelano le proprie emozioni.
Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole. Così diceva Pablo Picasso. E Chung Mong-hong sembra suggerire che dovremmo provare ad essere artisti lungimiranti nel dipingere i nostri giorni, lasciando entrare la luce, pur conservando qualche salvifica zona d’ombra.