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Notti magiche

Dopo il debutto oltreoceano con il drammatico agrodolce Ella e John Paolo Virzì torna in patria e in particolare torna a Roma, con Notti magiche, film quasi autobiografico che però arranca nel restituire un vero punto di vista personale, per via di personaggi solo abbozzati e riflessioni poco originali sul “marciume” del mondo del cinema.

Ed è un peccato, perché l’inizio di Notti Magiche è accattivante: mentre tutti gli occhi di Roma sono attaccati al televisore per la finale Italia/Argentina del 1990, un’automobile precipita nel Tevere. All’interno, il produttore Leandro Saponaro, vecchia volpe ormai sul viale del tramonto: nella tasca della sua giacca, i carabinieri trovano la foto dei suoi potenziali assassini, che rintracciano e interrogano. Con il pretesto delle deposizioni dei tre giovani sospettati, il film si articola dunque in un lungo flashback, stilema tipico dei film gialli e noir (Viale del tramonto, La fiamma del peccato).

Notti magiche

Ritorniamo quindi a qualche tempo prima, in concomitanza dell’assegnazione del Premio Solinas, l’onorificenza più prestigiosa in Italia per aspiranti sceneggiatori. I tre finalisti che si giocano l’opportunità di vincere sono Antonino Scordia (Mauro Lamantia), intellettuale siciliano dalla lingua forbita e dalla poca esperienza nella vita; Luciano Ambrogi (Giovanni Toscano), figlio di un operaio di Piombino che aspira a un cinema impegnato; e Eugenia Malaspina (Irene Vetere), rampolla di una ricca famiglia romana di cui odia il mondo vuoto e ammanicato.

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I tre ragazzi abbracciano il loro debutto nel cinema pieni di ideali, ma eventualmente ognuno di loro toccherà con mano la pochezza e la rassegnazione che si nascondono dietro questo sfavillante mondo. Antonino infatti vince il Premio, e con questo l’opportunità di girare la sua sceneggiatura sul pittore Antonello da Messina: ma il produttore è Saponara e lo vuole trasformare in un successo commerciale. Ambrogio si riduce a fare da ghostwriter per film e soap opere. Mentre Eugenia finisce violentata dall’attore francese per cui ha una cotta.

Purtroppo, le premesse da incalzante giallo all’italiana sono solo un pretesto per lasciare il posto a una sfilacciata lungaggine sulle speranze infrante di tre giovani idealisti, che vengono rigurgitati e infine espulsi da un mondo cinico e baro. Mondo che non si capisce se Virzì celebra o condanna. Il regista infatti ha parlato di nostalgia di quegli anni; e Notti Magiche ha un senso nostalgico di fondo, ma resta ambiguo negli intenti.

Notti magiche

Il dialogo con la poetica del decadentismo è dichiarato, in particolare attraverso il “cameo” di Fellini e le varie scene di sfarzo vuoto. Il paragone con La Dolce Vita, e quindi di conseguenza con La Grande Bellezza, viene presentato fin dal titolo, che, come gli altri due, evoca un ritratto di bellezza poetica che si rivela antifrastica rispetto alla trama. Anche la prima scena potrebbe essere una versione aggiornata della scena d’apertura della Dolce Vita, in cui a catalizzare l’attenzione non c’è più il Cristo, bensì il nuovo Dio degli anni ‘90, Diego Armando Maradona. E in effetti, come l’epilogo suggerisce, i protagonisti di Notti Magiche sono più felici lontani da quel mondo.

Però il risultato resta ambiguo: il filo rosso del film è infatti il consiglio «guarda fuori dalla finestra» e non potrebbe essere più inopportuno in questo caso. Perchè, nonostante una carriera in effetti imperniata sull’osservazione acuta e personale di situazioni e di persone, Notti Magiche è l’opera di Virzì più solipsistica: parla del mondo che hanno vissuto lui e i suoi sceneggiatori Francesco Piccolo e la regista Francesca Archibugi, e purtroppo in modo poco graffiante e carente di riflessioni originali. Eppure, sembra volerci dire che per uscire fuori dal pantano del cinema italiano attuale, bisogna fare quel cinema del reale con cui lui esordì negli anni ’90 con La Bella Vita, che parla di operai di Piombino, esattamente come il soggetto del giovane Luciano Ambrogi.

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Notti magiche

Purtroppo, a differenza dei suoi film migliori (Ovosodo, Il Capitale Umano, Tutta La Vita Davanti) in questo caso il risultato è finto e meccanico, per esempio nella rappresentazione dell’amicizia tra i tre ragazzi, molto ostentata ma poco approfondita; e anche le dinamiche di corruzione e favoreggiamenti sono un po’ triti e appesantiscono la narrazione. L’unica idea carina del film è la risoluzione dell’omicidio da parte del poliziotto, che usa come metodi deduttivi gli stessi meccanismi drammaturgici che fanno di un film un film. Peccato che sia rovinata dalla moraleggiante tesi finale, secondo cui si dovrebbe fare cinema imitando la vita, e non il contrario. Tesi che, come abbiamo detto, sembra in realtà confutata dal film stesso. Inoltre, non aiuta che la recitazione dei tre giovani protagonisti sia spesso macchiettistica e approssimativa; viene a mancare quindi un altro punto di forza di Virzì, che solitamente ha una direzione degli attori incredibilmente naturale.

Per concludere con una nota positiva, Virzì torna finalmente Virzì nella scena prefinale, in cui la semplicità di Catia apre una nuova breccia di speranza, quando il maestro Pontani, che non parla con nessuno se non con lei, le mostra la vera magia di Roma, ovvero quando la notte finisce, le luci si spengono, e tutti i brulichii umani si placano. 

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
performance
emozioni

SOMMARIO

Uno sguardo nostalgico e semiautobiografico del cinema a Roma negli anni Novanta, che mescola i generi in modo talvolta un po' confuso.
Marianna Cortese
Marianna Cortese
Attualmente laureanda in Lettere Moderne, ho sempre avuto un appetito eclettico nei confronti del cinema, fin da quando da bambina divoravo il Dizionario del Mereghetti. Da allora ho voluto combinare cinema e scrittura nei modi più diversi e ho trangugiato di tutto: da Kim Ki-Duk a Noah Baumbach, da Pedro Almodovar a Alberto Lattuada. E non sono ancora sazia.

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