Lo spiantato agente immobiliare Dino Ossola decide di entrare nel fondo di investimenti del manager Giovanni Bernaschi, approfittando del fidanzamento tra sua figlia Serena e l’erede dell’uomo d’affari Massimiliano. Per farlo chiede alla banca settecento mila euro che non avrebbe. Intanto un cameriere, finito il suo turno, tornando a casa in bici, di notte, viene investito dal suv del ragazzo, senza che sia chiaro chi fosse alla guida. Intanto la signora Bernaschi, Carla, trascorre annoiata la sua esistenza altoborghese, cercando stimoli in continuazione ed ottenendo in cambio soltanto l’indifferenza e i lamenti di marito e figlio. Intanto Serena matura e decide di non voler più continuare la sua storia col superficiale Massimiliano, cercando nuove compagnie più sensibili e simili a lei. Sono queste le premesse con cui si deve cominciare a parlare de Il capitale umano, undicesimo film di Paolo Virzì e, almeno finora, suo miglior lavoro, soprattutto per l’architettura che ha saputo costruire insieme ai fidati collaboratori Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Una costruzione in cinque capitoli, che raccontano la medesima vicenda ma ognuno da un punto di vista diverso, arricchendola continuamente di particolari e arrivando progressivamente alla verità, come in un grande giallo. Il regista livornese si ispira a un romanzo statunitense (di Stephen Amidon) e lo trasporta nella Brianza dei mega-manager, dei lupi della finanza nostrana, mostrandone i numerosissimi scheletri nell’armadio e portando sullo schermo uno dei più innovativi e accattivanti film italiani dall’inizio del millennio.
Parlando di Il capitale umano è difficile capire quanto il merito del successo (di pubblico e critica) del film, sia da tributare al pool di sceneggiatori o alle interpretazioni del cast (non è un caso che il film si sia portato a casa tre premi dedicati agli attori su quattro, ai David del 2014). La pellicola, infatti, si presenta come pressoché perfetta ad entrambi i livelli e la bellezza dell’uno è tale semplicemente grazie all’altro. È un film coraggioso, che in Italia non si era forse mai visto, almeno nella contemporaneità, e che se fosse stato americano certamente avrebbe avuto una risonanza maggiore di quella (già ottima) che gli è stata tributata. Troppo spesso Virzì viene sottovalutato e mal interpretato. È vittima del pregiudizio secondo il quale strizza l’occhio allo spettatore raccontando storie che all’audience media non possono che piacere. Insomma, è considerato, anche da certa critica specialista, un ottimo autore di midcult, accusa odiosa se fatta ad un regista. Il guaio è che i pregiudizi sono difficili da estirpare, e così Virzì parte sempre con una zavorra sulle spalle, mentre altri registi, molto più “ruffiani” verso il pubblico di lui (vedasi Muccino o in molti casi Ozpetek) sono celebrati come maestri del cinema del nostro tempo. Ma di fronte a Il capitale umano chiunque ha tirato giù il cappello, riconoscendo al regista di N – Io e Napoleone e La pazza gioia, il meritato plauso per un racconto a puzzle pienamente riuscito.
Più che parlare del film occorre porre l’attenzione su tutti i personaggi principali che lo compongono. La complessità e l’aspetto più accattivante della pellicola, stanno infatti tutti nelle psicologie contorte e imperscrutabili degli attori di questa vicenda corale. È difficile identificare un protagonista assoluto della storia. Certamente il personaggio più complesso e meglio sviluppato del film è quello di Carla Bernaschi (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi). La donna ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di attrice per diventare la perfetta moglie di un manager di successo, la classica donna che deve sostenere il marito senza poter avanzare troppe pretese individualiste (almeno questa è la visione del marito Giovanni). Poi, durante una normale, monotona, scorreria in Maserati, segnata da una confusione totale circa la direzione da prendere, Carla passa di fronte ad un teatro abbandonato e in procinto di essere venduto. Ecco che allora affiora nella sua mente uno stimolo vitale a cui aggrapparsi con forza, per non cedere alla depressione più totale. Si fa comprare il teatro e imbastisce un consiglio d’amministrazione per gestirlo, al quale partecipa anche il professore Donato Russomanno (Luigi Lo Cascio), l’unico che sembra ricordarsi del passato artistico e pieno di sogni della signora Bernaschi. Con lui, e con quell’impegno, vive l’illusione di un cambiamento che però non si verifica, perché, all’ultimo minuto, la società del marito decide di disfarsi dell’immobile in quanto troppo costoso. Ma Carla ormai è cambiata, e non è più disposta ad accettare passivamente la sua esistenza di prima. La Carla del finale, pur ancora insieme a Giovanni, è una donna di carattere, che sa benissimo di essere dalla parte sbagliata dello schieramento e che lo ammette di fronte al marito. Virzì ha rivelato l’esistenza di un finale alternativo in cui Carla, scalza, corre per le campagne della Brianza, finalmente libera dai vincoli altoborghesi che l’hanno incatenata troppo a lungo. Un finale che non compare nella versione definitiva de Il capitale umano, ma che ha ispirato il personaggio di Beatrice de La pazza gioia, il film successivo del regista livornese, sempre interpretato dalla Bruni Tedeschi. Insomma, quello che non si vede nel film ci dice tutto su una delle sue protagoniste, l’unica, insieme a Serena, che di fatto evolve a seguito della vicenda.
Gli altri personaggi, infatti, dimostrano di essere ostinatamente immobili di fronte alla propria esperienza. Su tutti Giovanni Bernaschi (un Fabrizio Gifuni in stato di grazia), il quale alla fine del film, dopo aver visto i sorci verdi sia sotto l’aspetto finanziario che sotto quello famigliare, torna esattamente il cinico e odioso businessman dell’inizio, dimostrando di non aver imparato niente dai rischi corsi. Tuttavia, dimostra di percepire un cambiamento nella sua vita, ma decide di volgere lo sguardo altrove, annegando sul nascere qualsiasi mutamento. Per lui il cambiamento di programma è un problema assoluto, da evitare a tutti i costi. Quando sul finire del film una Carla ormai matura gli dice: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese. E avete vinto.”, lui le risponde: “Abbiamo vinto”. Ha capito perfettamente che sua moglie non è più quella di prima, ma, pur di non ammetterlo nemmeno a sé stesso, preferisce considerarla come in precedenza, come se nulla fosse successo. Durante il film aveva lasciato intravedere dei segnali di grande umanità, sorprendenti, che facevano sì che lo spettatore scommettesse su un ridimensionamento nel modus cogitandi anche da parte sua. Ma questa evoluzione non lo riguarda. Il messaggio che passa è forte e chiaro: possono cambiare e forse redimersi) solo le persone sensibili, non gli squali navigati.
Ma il ruolo dello scaltro che trionfa, almeno dal suo punto di vista, spetta certamente al personaggio di Dino Ossola (un ottimo Fabrizio Bentivoglio). L’uomo si comporta come il più scriteriato degli imprenditori praticamente per tutto il film, non azzeccando alcuna mossa finanziaria e mettendo più volte in imbarazzo, spesso con la sua sola presenza, sia il suo modello Giovanni sia la figlia Serena. Vive in una villetta in periferia, gira con un Audi vecchia, non veste con abiti di alta sartoria come i Bernaschi, eppure alla fine, nonostante le apparenze e gli avvicendamenti per lui davvero rischiosi, è lui a trionfare, non solo dal punto di vista economico, ma anche, per così dire, da quello diegetico. È lui che di fatto risolve il giallo, in maniera scaltra e moralmente deprecabile, ma comunque in modo definitivo. Il bacio che chiede a Carla in cambio della salvezza di Massimiliano, da molti critici e spettatori considerato una forzatura, è invece la miglior uscita di scena possibile per un personaggio come Dino. Per tutto il corso de Il capitale umano, infatti, Dino vede Giovanni come un punto d’arrivo, un idolo da seguire per avere lo stesso successo. Non riesce mai, però, a raggiungerlo e a “prendergli il posto” perché semplicemente non è fatto alla sua stessa maniera. Quando finalmente riesce ad avere in pugno i Bernaschi, non si lascia sfuggire l’occasione. Quel bacio, significa che ha trionfato,, che ha raggiunto il suo scopo. Una vittoria d’orgoglio assoluta, per lui.
Il personaggio di Serena (l’esordiente Matilde Gioli) è invece quanto di più diverso ci sia da tutta la gente che frequenta o con cui è costretta a vivere. Mal sopporta i ragionamenti e il modo di vivere sia dei Bernaschi sia di suo padre, tanto da allontanarsi nella maniera più intelligente possibile da quel mondo. E ci riesce, in un modo che non si può anticipare in sede di recensione per evitare spoiler. È lei l’eroina della vicenda, la rappresentante della morale giusta, quella genuina e sincera, in un mondo dove chi non bluffa viene eliminato senza troppe cerimonie.
Colpisce poi tutto l’apparato tecnico del film, dalle musiche del fratello del regista Carlo Virzì, alla fotografia del francese Jérôme Alméras, che gioca sulla contrapposizione tra la luminosità barocca della Villa Bernaschi e dei palazzi finanziari e la luminosità fortemente contrastata delle periferie e dei personaggi subalterni, che vorrebbero entrare nella luce ma non possono farlo pienamente.
Il capitale umano rappresenta il punto più alto finora raggiunto dal regista livornese, e uno dei migliori titoli del cinema italiano dello scorso decennio. Un film internazionale nello stile e nell’approccio. È questo il cinema italiano che vorremmo sempre vedere nelle sale.