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Le strade del male

Certe persone nascono solo per essere sepolte. Interrate nella vergogna, inumate nel pantano che non sono mai riuscite a scrollarsi di dosso. Là dove gli uomini in divisa si lasciano corrompere dal bagliore delle sole promesse e gli uomini di fede assaggiano il godurioso sapore del perversione mantenendosi estranei al pentimento non vi è alcuna possibilità di restare umani. Se si ha il Diavolo davanti agli occhi per tutto il tempo, “Le strade del male” sono le uniche che le nostre scarpe calpesteranno.

“Le strade del male” è un tuffo selvaggio in quell’America d’un tempo che si fatica a definire passata. Perché ha martoriato i propri figli e li ha istruiti alla sottomissione, li ha armati fino ai denti, senza permettere loro di vomitare fuori la rabbia. A spingerci verso questa caduta rovinosa che non prevede appigli è il romanzo “The Devil All the Time” dalla penna di Donald Ray Pollock. Ad adattarlo allo schermo per soddisfare la nostra degenerazione voyeuristica è un vero cultore delle tenebre. Antonio Campos, noto per aver diretto il biopic meravigliosamente multiforme “Christine” e per essere produttore esecutivo (a aver anche diretto diversi episodi) della misteriosa serie tv “The Sinner”.

“Le strade del male” non è di quelle storie da leggere prima di addormentarsi. Le sue pagine si conficcano nell’animo e non smettono di dare il tormento. È una storia di dannati e luridi profeti, una storia piena stracolma di peccati e priva di una qualunque innocenza. L’unico ad essere rimasto alieno alla contaminazione dell’immoralità sembrerebbe il narratore. Colui che questa storia vuole raccontarcela, ad ogni costo, pur correndo il rischio di ripetersi, di ribadire le verità più aspre, di inchiodare alla stessa croce gli stessi uomini più volte. La calda voce di Donald Ray Pollock, autore del romanzo, spiega, anticipa, riflette su quanto vediamo accadere dentro lo schermo.

Probabilmente avremmo gradito essere lasciati liberi di smarrirci ne “Le strade del male” senza l’ingombrante accompagnatore pronto a puntualizzare ogni avvenimento. Eppure se si riuscisse a silenziare la saccente voce narrante si potrebbe godere di una storia intrisa di materia feroce, abile ad innescare in noi curiosità e turbamento.

Le strade del male

Trascrivere in immagini ciò che sa appassionare per mezzo di pagina è affare complesso, e in merito a “The Devil All the Time” la questione si fa ancor più ardua. Il romanzo è molto articolato e presenta molti personaggi dalla follia faulkneriana destinati ad imbattersi nei destini altrui. “Le strade del male” è un film chiamato a sputare fuori ombre emotive acide e brutali, capaci di schiacciare la società americana tra le contraddizioni da cui trae origine e il desiderio di liberarsene per sempre. La malcelata schiavitù di un popolo ossessionato dalla libertà. Operazione difficile a dirsi compiuta in poco più di due ore, eppure il risultato è un racconto visivamente accattivante (grazie alla fotografia pulita di Lol Crawley) abitato da volti dalla ferocia irresistibile.

Siamo in Ohio. Eppure potremmo trovarci in Maine, persino in Texas. Siamo precisamente tra Knockemstiff e Coal River, eppure potremmo essere senza dubbio altrove. Qui, in punto esatto qualsiasi della vasta cartina geografica americana, va in scena una cronaca violenta di fanatismo e degenerazione. I soldati rientrano dalla guerra, i predicatori si abbandonano a folli sproloqui, i fedeli rimangono docili sulle loro panche di legno, mentre assassini seriali percorrono le strade in cerca di altre vite da falciare. Uomini con la pistola in tasca e uomini con la Bibbia fra le mani. Uomini pericolosamente armati, in entrambi i casi. 

È il 1957 e Willard Russel (Bill Skarsgard – l’inquietante Pennywise del film “It”) fa ritorno dalla guerra. È diretto a casa, in Virginia. In Ohio si ferma qualche ora, per poi riprendere il viaggio. Ma quella cameriera amichevole che gli porge il caffè lo colpisce dritto al cuore. Negli stessi magici istanti in cui Willard incontra Charlotte (Haley Benett), nello stesso galeotto locale Carl (Jason Clarke) incrocia lo sguardo di Sandy (Riley Keough). Sono destinati ad un altrettanto romantico futuro. Costellato però di omicidi seriali.

Due storie nate parallelamente, assai distanti in origine, inevitabilmente costruite per entrare violentemente in collisone.  Willard è un reduce di guerra che prende la religione molto sul serio. Il ricordo di quel marine inchiodato su una croce, in agonia, scuoiato vivo dai giapponesi, è una cicatrice indelebile. Non riesce ad allentarsi da quell’insopportabile cimelio della propria memoria. Facilmente scivola nella torbida violenza. Lo sa bene il figlio che ne subisce l’ira manifestata a ceffoni e urla.

Tra carne, sangue e corpi, resta spazio solo per la disperazione. Willard credeva di poter tenere a bada la propria afflizione grazie all’adorata moglie, ma dopo la sua morte ogni contrasto esplode. Urlare inginocchiato alla croce non servirà a nulla, il dolore lo condurrà al suicidio. Il figlio Arvin (Tom Holland) dovrà cavarsela da solo. Dovrà fare i conti con il montare d’odio verso quella religione che non ha mai saputo proteggerlo, nemmeno quando pregata a pieni polmoni. Dovrà sopravvivere tra autentici figli puttana, punire falsi predicatori e persino sfuggire alla furia omicida di chi ha fatto della violenza l’unica ragione di vita. Se le strade americane non fossero così dannatamente estese ci sarebbe molto da preoccuparsi. “Le strade del male” sarebbero le uniche vie possibili.

Le strade del male

L’America bianca, armata e brutale, quella che sceglie di regalare ai propri figli una pistola e di relegarli ad un futuro già scritto, ineluttabilmente costituito da falsi credo e negata redenzione.  “Le strade del male” fonda le proprie radici proprio tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il doloroso conflitto in Vietnam. Due generazioni di uomini rientrati in patria cosparsi di cicatrici, ai quali tormenti venivano offerti alcol e Bibbia. Spinti a sottostare al volere divino, in una degenerazione ultra conservatrice che tuttora imperversa in certe zone del Midwest rurale, ancora ago della bilancia politica.

Ed è qui, tra i boschi dell’Ohio e del West Virginia che il destino malauguratamente già scritto di Arvin Russell (Tom Holland), si incrocia con spaventose creature: una coppia, nemmeno troppo innamorata, di folli killer, un viscido Reverendo (Robert Pattinson) e un corrotto sceriffo (Sebastian Stan). Le ombre che tenteranno di fagocitare il giovane Arvin saranno spietate e bestiali, ma sarà la figura del padre, fanatico veterano di guerra, a condizionare ogni suo passo. Come ogni buon romanzo che si rispetti insegna, sono le colpe dei padri a condannare senza via di scampo gli ignari figlioletti. Così, fino a quando non saranno relegati sotto copiose manciate di terra, i fantasmi dei padri tormenteranno in eterno la loro prole.

“Le strade del male” presenta un cast formidabile. Spiderman (Tom Holland) e Batman (Robert Pattinson – in sala in questi giorni con “Tenet” di Nolan, dove si è imposto come attore più incisivo del cast) si sfidano brandendo sermoni e pistole in un confronto finale assai interessante. Mia Wasikowska (“Alice in Wonderland”), anche se presente in poche scene, ci restituisce il personaggio più autenticamente ingenuo dell’intero thriller-drama. E Harry Melling (il capriccioso fratellastro Dudley di Harry Potter) ci porta in dono un personaggio dalla follia catastrofica.

Le strade del male

Il vero talento, anche in questo caso, sembra essere proprio Robert Pattinson. Qui nei panni di un reverendo sudicio, pronto a scuotere la platea di ignoranti seguaci con sermoni altisonanti e clamorosamente vuoti. È bene sottolineare quanto sia consigliabile godere della sua performance interpretativa in lingua originale. Pattinson è riuscito a riprodurre un estremo accento tipico del profondo South of Usa. Un accento virginiano da applausi.

“Le strade del male” si muove tra il western neo moderno e il thriller sporcato da una sfumatura noir. Sono molte le atmosfere che intende richiamare alla memoria e altrettanto numerosi sono i protagonisti, con le loro azioni sconsiderate e i loro desideri di espiazione. Campos riesce a tracciare in un tempo ragionevole un ritratto capace di definirne gli aspetti principali. Nonostante questo la costruzione emotiva dei personaggi appare colpevolmente soffocata. Si ha la sensazione, non del tutto piacevole, che un buon film sia stato macchiato dal sacrificio ottemperato ai danni delle molte sfaccettature che le povere dannate anime dei protagonisti avrebbero potuto regalarci.

La violenza mostrata potrebbe apparire gratuita, rivoltante, senza funzionale tensione a precederla. Ma in fondo è questa la violenza americana verso cui la narrazione punta il dito. Questa è la bestialità che si vuole mostrare all’interno del recinto. Quel male tanto evocato, sin dal titolo, viene di certo mostrato, ma optando accuratamente per una lente depurata e limpida, diversamente da quanto ci si sarebbe aspettato.

Le strade del male

La sensazione è quella di trovarsi davanti ad un racconto che non sa a quale dio consacrarsi. L’approdare al racconto di formazione o al dramma famigliare partendo dal thriller non consente alla narrazione di trovare un compiuto equilibrio. E la quantità di eventi che seviziano le tormentate esistenze dei personaggi sono così numerose da far pensare che una narrazione seriale avrebbe offerto maggior respiro al racconto delle loro malaugurate sorti. “Le strade del male” vuole forse raccontare troppo, finendo per incespicare nelle proprie ambizioni, pur regalandoci bellissimi scorci di ferocia umana e disincanto.

“Le strade del male” è un film di storie e persone che si scontrano, si suggestionano, si compenetrano fino ad annientarsi. Storie e persone che si imbattono le une nelle altre in un Paese dove si è condannati a seguire pedissequamente il sentiero già tracciato e ad inginocchiarsi alla croce della superstizione.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Una cronaca violenta di fanatismo e degenerazione. "Le strade del male" è un racconto visivamente di grande impatto, che unisce le ambizioni di un moderno western alla tensione di un cupo thriller. Peccato che la costruzione emotiva dei personaggi risulti soffocata e la voce narrante spiacevolmente pedante. il film sa nonostante questo regalare bellissimi scorci di umana ferocia.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.
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