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L’anno che verrà

L’anno che verrà non è solo un posto dove proiettare la speranza che oggi latita causa pandemia, ma è anche il titolo dell’ultimo lavoro del duo Mehdi Idir e Grand Corps Malade, alla loro seconda prova cinematografica, in un territorio forte e frequentato da registi francesi e non solo, ossia quel melting pot etnico e sociale che anima di vita, morte e miracoli i banchi scolastici delle banlieue.

A partire da La classe (2008), diretto ed essenziale, per arrivare al recentissimo vorticoso Les Miserables (2019), passando per il disagio contemporaneo de L’ultima ora (2018), cruciale risulta la dinamica dei rapporti che si instaurano tra chi porge e chi riceve istruzione; salgono naturalmente alla ribalta i colori, le atmosfere, i destini delle nuove generazioni che giacciono in limbi umani di frontiera, in attesa di essere colti, condivisi e raccontati. Ancor più se pensiamo a cosa l’anno terribilis in corso sta riservando al comparto istruzione.

L'anno che verrà

Così abbiamo Samia (Zita Hanrot), giovane donna, appena arrivata nella scuola superiore di Saint-Denis in qualità di nuova vicepreside: trasferitasi per stare vicino al compagno recluso nella locale prigione, si ritrova in mano una polveriera di ragazzi turbolenti e iperattivi, dalle mille sfaccettature, in cerca di se stessi. Tutti con famiglie problematiche alle spalle, più o meno soli, aggrappati ai cellulari, ai miti del rap, in bilico tra povertà, lavori poco puliti e la strada, in affanno sui compiti, con difficoltà di apprendimento, bugiardi patologici, insofferenti alla disciplina, restii ad aprirsi veramente, uniti e distanti, algerini, bianchi e sangue misti, fin troppo disinvolti e ben poco fiduciosi nei confronti di chi gli parla dalle cattedre.

Yanis (Liam Pierron), in particolare, è uno di loro: ha cervello e cuore sufficienti per riuscire, ma non si applica; la sua famiglia poggia sulla madre fondamentalmente debole mentre il padre sconta la galera per crimini pregressi; potrebbe far bene, ma è confuso e privo di punti di riferimento. Il suo disorientamento è lo stesso di Samia, due isole inquiete in cerca di una propria connotazione e contemporaneamente in balia di forze ed opportunità nuove e sconosciute, entrambi al centro di una sfida di cui non conoscono confini e conseguenze, che li porta a mettersi in gioco e a cambiare le rispettive certezze.

L'anno che verrà

Non c’è una trama vera e propria ne L’anno che verrà, e questo è un bene ed un male: di positivo infatti c’è che non esiste un obiettivo da raggiungere, un filo cui ricondurre esplicitamente le tante parabole dei ragazzi che varcano la porta dello studio della vicepreside; dall’altra è anche vero che senza storia è più smaccato l’inserimento di alcuni accenti didattici.

Seguiamo le giornate degli studenti tra le aule, le punizioni, le loro case e i tragitti mattutini che li portano a scuola, come se fosse un reportage a fondo perduto, senza aspettarci nulla in cambio se non la vita stessa degli adolescenti, fatta di complicità ammalata, di futuro nebuloso e di spensieratezza a tempo determinato: si ha la sensazione che non ci sia in fondo qualcosa da ottenere, una svolta, un evento fondamentale che debba accadere, un po’ come l’avvenire dimenticato e tradito di questi giovani, abbandonati a se stessi, alle loro origini, alla casuale buona volontà di un docente di passaggio.

Oggetto della narrazione è una quotidianità ordinaria, ferma pochi passi prima del documentarismo, sintetizzata nella lotta giornaliera con il professore di turno, nello scambio con i soliti amici, nell’improbabile esilarante partita di calcio-roller, nel ciclico retro pensiero “cosa ne sarà di me?”.

La tentazione d’insegnare o di indicare la retta via, svetta di tanto in tanto, svelandosi in discorsi in cui ci si domanda se sia giusto studiare solo quel che interessa, o se la disattenzione sia responsabilità di chi insegna più che di chi apprende, oppure se la matematica aiuti o meno a salvarci dalla problematicità del mondo o ancora se sia vero o falso che ognuno di quei ragazzi sia meglio di come appare.

L'anno che verrà

Dunque occhieggia qualche semplicità in alcuni scambi verbali, ma è digeribile e ampiamente superata dal montaggio euforico che detta un ritmo fortemente sostenuto, incorniciando il film in una frenesia virtuosa dove a battuta si sovrappone battuta, in una polifonia di volti, voci, risposte, commenti, esortazioni, provocazioni, insulti, risate e rimproveri che nulla hanno da invidiare alla vita reale.

Giusta scelta quella di non fossilizzare lo sguardo solo sul comparto discenti, dando spazio in simbolico parallelo anche alle vicende del gruppo insegnanti, eterogeneo specchio dei ragazzi, adulti fragili ed insicuri, ironici guerrieri o piccoli briganti, non santi né eroi, privi della risposta pronta, della pazienza assoluta, della formula magica, cittadini dello stesso purgatorio in cui sguazzano i loro alunni, per metà avvelenati dalla periferia che abitano, per metà scampati osservatori, consapevoli che dal ghetto forse riusciranno a tirar fuori due nomi su oltre cento quattordicenni che gli sfilano davanti.

Eppure la loro vite stanno nel tentativo, nel distillare le energie in un percorso che possa incanalare costruttività, abbattere la continua tentazione di mollare, per contribuire invece a costruire un’aspettativa, il famoso posto nel mondo che le istituzioni dimenticano colpevolmente di rendere possibile in luoghi scomodi come Saint Denis, mentre a posteriori risorge oziosa la domanda perché si odia l’autorità.

Regia che non manca di originalità nel modulare il proprio sguardo con modi ed effetti che lasciano alta la curiosità, basti pensare al ralenty finale pre-incidente o alla festa dei ragazzi, riflesso perfetto di quella degli adulti, due universi adiacenti con molte problematiche irrisolte in comune. Belli e freschi i volti dei protagonisti, malinconicamente dolci e con la giusta verve; ottima e piacevolmente divertente la loro mescolanza, mentre merito speciale va al tono complessivo del racconto che scippa la levità all’età giovane e la infonde durante tutta la propria traiettoria, anche laddove i profili delle vicende diventano più sordi e complicati.

L'anno che verrà

Non è facile raccontare del rapporto alunno-insegnanti senza cadere in accenti moralistici o nel lirismo spicciolo: qui non si sorprende, ma si osserva con onestà e si restituisce parecchio, con un occhio alla fruibilità, dunque evitando accuratamente il melodramma sociale. Lo spettatore resta ad interrogarsi sul tempo perso e le occasioni mancate che in una scuola sorgono spesso e altrettanto spesso vengono superficialmente ignorate: la resistenza agli ostacoli della vita si impara soprattutto tra i banchi.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Vita, morte e miracoli tra i banchi di scuola di una piccola cittadina francese: melting pot, disagio, spensieratezza a tempo determinato in un purgatorio in cui insegnanti ed alunni si fanno da specchio reciproco. Regia vivace; tono spigliato e lieve come l'età dei protagonisti, sordo e carico come la periferia che li ingombra.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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