Un professore di una prestigiosa scuola superiore francese si getta dalla finestra durante la lezione; la classe impegnata in un compito è presente. Viene chiamato d’urgenza un supplente Pierre (Laurent Lafitte): deve traghettare i ragazzi verso l’esame di maturità, assistendoli nel presumibile post-trauma che possono attraversare visto l’evento shockante cui hanno assistito.
Ma gli alunni non sembrano reagire in modo normale: sono dotati di un quoziente intellettivo superiore agli standard, dodici sceltissime menti riunite in una classe d’elite foraggiata dal comune, portano a casa la media più alta della scuola, studiano il programma dell’anno successivo al proprio e rimangono chiusi in una diffidenza ostile e compatta verso chiunque li circondi, compreso Pierre, l’insegnante ultimo arrivato.
Le rivalità e le invidie dei compagni delle altre classi, insulti ed aggressioni comprese, non li smuovono, semmai rafforzano la loro ambigua omertà e quello che in apparenza sembra arrogante distacco. Il resto del bizzarro corpo docenti non ne fa un problema, tollerando e giustificando ogni atteggiamento irregolare.
Pierre, neo-docente, non consunto dall’esperienza, né dalle usanze dell’ istituto, resta colpito da un tale comportamento e non smette di tenere d’occhio i ragazzi; li pedina e scopre che insieme svolgono attività anomale e pericolose, quasi fossero una setta: fanno a gara a resistere in giochi rischiosi o violenti, sfidano la paura e il dolore a costo di farsi male seriamente, nascondono dvd dai contenuti inquietanti. Così giunge alla conclusione che la morte del suo predecessore non sia stata casuale e che, in segreto, quegli adolescenti stiano organizzando qualcosa di terribile.
Presentato alla 75. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nella sezione Sconfini ed uscito nelle sale Italiane la scorsa estate, L’ultima ora è l’intrigante e metaforico thriller che ha portato Sebastien Marnier per la seconda volta alla regia e cosceneggiatura dopo il suo debutto con Irreproachable nel 2012.
La chimica del sospetto e la strategia della tensione dominano il racconto di una generazione di teenager perduta, confusa, malata di apatia e panico rassegnato, in grado di non provare più paura, né speranza, né desiderio alcuno.
Tra gli ingredienti di cui in modo sotteso e mai esplicito si nutre l’immaginario del film c’è la paranoia fine a se stessa dei nostri tempi pigri, l’astenia autogenerata dalla mancanza di stimoli, il quotidiano marcio, indifferente, asfittico ed omologante; si va dalla depressione social, al bullismo tra minorenni, dall’emulazione del male, all’ eruzione sdoganata e rovinosa di violenza armata alla Colombine, per intenderci.
Se questi sono gli echi di fondo cui corre veloce il pensiero durante la storia scelta da Marner, in primo piano c’è la costernazione per un mondo in agonia, ammalato di noi, la resa al declino progressivo propinato ed alimentato giorno dopo giorno dinnanzi agli occhi dei più giovani, il venir meno di valori e punti di riferimento a partire dall’istituzione scolastica.
Ogni cosa rabbuia agli occhi dei ragazzi, e non sanno come opporvisi; sono in guerra con gli altri, con se stessi, con il tempo, e tutto sembra già alle spalle, finito, irraggiungibile. Lo spreco e l’inquinamento costante delle risorse naturali ed umane, la paura del diverso, le stragi terroristiche, la crudeltà pubblicamente esibita, lo spaesamento degli animali, l’impotenza dei malati, il pericolo intrusione che anche a scuola ci si prepara ad affrontare tramite specifiche esercitazioni, l’abbandono e il degrado di ciò che un tempo era bello, l’ingovernabilità della natura che si piega, si contamina, si distrugge per incuria e sfruttamento pedissequo e barbaro, tutto contribuisce all’anomalia contagiante, filmata, accostata, rievocata come disperato testamento di adolescenti in-capaci di resisterle.
Così si avvelenano le aspettative e la gioia di vita di chi non è colpevole per questi delitti, perché è stato al mondo troppo poco per decidere di perpetrarli, ma ne sente comunque il peso scellerato e l’irrimediabilità.
Fa paura il pianeta del futuro, c’è il disarmante presagio di doversi preparare al peggio, ad un fine-pena-mai esistenziale che non vale una vita, e, dunque, perché resistere per soffrire? Ai confini dell’umano, c’è la rinuncia, ci sono gli addii, che qui fanno molta più impressione perché messi in bocca ad un gruppo di diciassettenni il cui massimo svago è cantare in coro canzoni di Patty Smith colme di rabbia disperata e di disprezzo per capitalismo e denaro.
Nell’epoca di Greta Thundberg e Scioperi mondiali per il clima, dove la disumanità è agita anche dai più piccoli, e “si gioca a morire su youtube”, la consapevolezza dei giovani protagonisti, inquietanti e mai sorridenti, è la prova di un esempio sbagliato, di una perdita ed una condanna collettive.
Il personaggio di Pierre, insegnante d’arrembaggio, capitato per caso in questa scuola dorata e indifferente, ritornato agli studi universitari dopo tempo, senza una situazione sentimentale stabile, con una tesi in dirittura d’arrivo su Kafka maestro indagatore della natura umana nelle sue forme e situazioni più parossistiche, non è un angelo custode casuale, bensì fortemente connotato per la missione: la sua vita è a metà tra rinascita e baratro, è irrequieto esternamente tanto quanto lo sono internamente i suoi alunni speciali, inconsciamente attratto dalla situazione e consciamente spaventato dalla stessa, precipita in un vortice ossessivo, in cui ogni sforzo per decodificare le circostanze che gli si presentano, assume la forma di ciò che teme, e sfigura la sua vita in un incubo a cielo aperto di cui vediamo immagini distorte e preoccupanti, quasi fossimo in un film horror .
Lo sguardo che guida è distaccato come quello dei ragazzi, essenziale e straniato, privo di enfasi o di commento, il ritmo ben sostenuto lascia crescere la curiosità, anche grazie all’ipnotica colonna sonora, la struttura resta salda, tranne alcuni angoli in cui l’alienazione giovanile o la trasfigurazione onirica scivolano nel clichè: lo spunto è tanto potente quanto insidioso, esige un’assunzione di responsabilità, ma teme l’usura e la banalità.
Per fortuna Marnier non si sottrae, ma nemmeno cede o sottolinea: tutto parla o non parla, da sé, rilasciando sospensione e sgomento nell’atmosfera, fino all’ultima apocalisse interdetta, in un ralenty di larsvontriana ispirazione, in cui ogni cosa può fermarsi, azzerarsi o ricominciare. A noi la scelta, a loro l’esito.
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