La mia vita con John F. Donovan è un film bersaglio, di cui si è parlato in modo devastante, con una critica piccatissma che gli ha riservato una bocciatura plateale ed irredimibile. Non ci appartengono la maggior parte delle convinzioni e soprattutto i modi di queste analisi drammaticamente deluse, perciò le riflessioni che lo riguardano hanno bisogno di un po’ più di spazio del normale e ne chiedo perdono in anticipo.
Rupert Turner (Jacob Tremblay) ha unidici anni ed una passione immensa per la recitazione: vuole diventare attore. Vive con la madre Sam (Natalie Portman), ex-attrice, che ha lasciato gli U.S.A. per tentare un’altra vita in Inghilterra ad Harrow; così ora il ragazzino ha una nuova casa, nuova scuola, nuovi compagni a cui non piace, tanto da essere bullizzato per i suoi sogni da palcoscenico ed il suo aspetto un po’ femminile; incontra di rado il padre a Londra, vede affievolirsi progressivamente provini o audizioni, perché americano tra inglesi e per la sotterranea volontà materna di allontanarlo da un mondo che può disilluderlo brutalmente e distrarlo: perciò si sente solo, incompreso, con un carico di tristezza e rabbia eccessivo per la sua età.
Unico appoggio morale ed emotivo è la star televisiva John Donovan (Kit Harington), con cui per cinque anni scambia regolarmente lettere scritte con un pennarello verde: dalla prima che gli inviò e alla quale il divo sorprendentemente rispose, il carteggio continua fitto e segreto tra i due; nelle parole della star, il bambino trova nutrimento per le proprie ambizioni, sfogo alle paure, condivisione di ansie e di aspettative. Donovan, al pari di Rupert, ha sofferto a causa del suo sogno, è gay ma impossibilitato a dichiararsi per l’ipocrisia commerciale dello showbiz che lo vuole costante idolo femminile, con un fidanzamento di facciata ed una madre (Susan Sarandon) che odia ed ama al contempo, un patrigno non troppo affezionato e il resto della famiglia per cui rimane un vincente ed inguaribile estro snob.
Di questo incredibile movimento epistolare è lo stesso Rupert giovane uomo divenuto scrittore (Ben Schnetzer) a raccontare in una lunga intervista ad una scettica giornalista (Thandie Newton), di solito impegnata in ben altro tipo di servizi, inviata per realizzare un articolo sull’ultimo libro firmato dal giovane: è così che si ripercorrono entrambe le vite di questi imprevisti e sinceri amici di penna e la loro corrispondenza a distanza, nata, cresciuta, smentita, ma mai abbandonata: da un parte l’attore feticcio degli adolescenti, stritolato dal meccanismo hollywoodiano, da idolo a semisconosciuto, morto solo e in modo non del tutto chiaro, dall’altra un bambino che affronta le sue paure profonde e impara a crescere senza rinunciare ai propri desideri.
Questo è il film sfortunato del talentuoso Xavier Dolan, la sua settima creatura, prima produzione americana, con un cast di altissimo livello, ed un iter frastagliato come pochi altri: lavoro sottoposto ad enorme pressione, non solo mediatica, entrato in competizione al Festival di Cannes 2018, successivamente ritirato dalla kermesse, rimaneggiato in sede di montaggio su più livelli tanto da arrivare all’eliminazione di un personaggio importante affidato a Jessica Chastain (le cui immagini in locandina erano già state preparate e diffuse), perché eccessiva la durata del tutto e non soddisfacente il risultato finale nelle esigenze editoriali; ripresentato in concorso al Toronto Film Festival dello stesso anno e massacrato dalla critica di mezzo mondo, in primis quella inglese ed americana, con parole e toni talmente sproporzionati da ingenerare il pensiero di una faziosità in chi ne ha così scritto che ha radici altrove e che, a contrario, fomentano la sana necessità di un riesame del maledetto caso, una sorta di appello che il curriculum di questo regista, con ventisette primavere in corpo all’epoca del lungometraggio in questione, giovane merito trentenne della sua generazione, un premio della giuria nel Festival di Cannes 2014 per Mommy e un Grand Prix sempre a Cannes nel 2016 per E’ solo la fine del mondo, dovrebbe imporre.
Dunque cosa c’è di così sbagliato in questo film: nulla di apocalittico. Molti inveiscono su una sceneggiatura poco verosimile, su una confusione e un assembramento nella narrazione, su un uso sbagliato degli attori ed una ripetitività delle tematiche. Sicuramente si parte, come quasi sempre vale per il regista, dal suo vissuto personale: arcinota è la lettera che Dolan bambino di otto anni, piccolo attore desideroso di fare carriera nel mondo dello spettacolo, scrisse al suo idolo Leonardo Di Caprio, rivelandogli la segreta speranza di poter un giorno recitare con lui. Da qui si sviluppa l’idea della corrispondenza epistolare tra un giovane ed un bambino, protratta a lungo, rispetto alla quale ci si può interrogare sulla verosimiglianza, la tenuta del segreto, il tipo di contenuti che non potevano rispondere effettivamente agli intimi abissi personali dei due, quantomeno di Donovan.
Ma è davvero questo il punto? Stiamo parlando di uno stratagemma-metafora per far dialogare due poli, solo apparentemente antipodici, messi a galleggiare nello stesso universo ossia quello cinematografico, così da far scattare la riflessione. Non c’è niente di così originale, e niente di così scandalosamente disarmonico. Semmai chiaramente affiora la natura disumana di una giungla in cui vige la legge del più forte e del più falso; si smantella la bellezza hollywoodiana, che luccica ma non è oro, e si testimonia l’assenza di umanità in un ambiente che fa merce dei sogni propri ed altrui, che vieta di essere chi si è per un calo di share o di fatturato; comandano le aspettative, non la verità; il reale si plasma non si interpreta, e comunque per gli omosessuali, come dichiaratamente è lo stesso regista, lo spazio non è facile. Perciò si arriva al paradosso di vivere pubblicamente un amore, che privatamente non esiste, anzi è tenuto a distanza, perché non è quello che ci si aspetterebbe.
Dunque le emozioni sono giudicate, rientrano nel business, come spiegano anche le tremende e pacifiche parole di Kathy Bathes, manager di Donovan; e in un mondo che non è attualmente unanime nel varare leggi specifiche contro l’omofobia (la nostra, ad esempio, è molto, colpevolmente, recente), non credo si possa parlare di ripetitività tematica con tanta leggerezza: se si ritiene di insistere su un argomento, è concesso di spazientirsi solo se prima ci si è domandato per quale motivo si stia, soprattutto da parte di un artista, insistendo proprio su un certo argomento; e poi in caso passare oltre. Forse Dolan non riesce a passare oltre, in merito, forse non ha ancora detto tutto; ma questo rilievo ha poco a che vedere con la verosimiglianza o l’intellegibilità di una trama.
Dinamiche tossiche che muovono il lavoro di un attore, contesto culturale-sociale malato e venduto, intolleranza mal travestita, lo stesso regista nascosto nelle figure di Rupert e di Donovan e, ovviamente, l’intraducibile figura materna dolaniana, che anche qui torna e svetta tra i personaggi, affidata ad una splendida Susan Sarandon, che apre e chiude spazi di amore e di cruda colpevolezza, in un vortice emotivo di cui il protagonista soffre per sempre eppure non può fare a meno. Fa da contrappeso una Portman, mamma coraggio sommessa e disattenta, che fa dietrofront quando ancora non è troppo tardi per salvare le ambizioni del proprio bambino. Questo perché le due vite evidentemente dialogano, sono una la nemesi dell’altra, in ciò che non riesce l’adulto si riscatta il bambino; di qui la sintesi con cui Rupert scrittore, quasi aggredisce la giornalista prevenuta ed annoiata che lo intervista, reclamando attenzione perchè la sua è la storia di un uomo che ha salvato un bambino.
Nella durata giudicata, neanche a dirlo, eccessiva, probabilmente pesa l’insieme dei temi trattati cui non è concesso pari sviluppo, ed un racconto-confessione imperniato su tre piani, il Rupert intervistato, il Rupert Bambino e la vita di Donovan, temporalmente sfasati, paralleli fino ad un certo punto, che si intrecciano con un’orchestrazione non sempre furba o chiara, tanto da presentare alcuni sbilanciamenti che probabilmente il prolungato rimestio del montaggio non ha aiutato a sciogliere. Eppure le eventuali zone d’ombra a noi sembrano colmabili con una spontaneità che ha poco di straordinario. Inoltre c’è la classica estetica dolaniana, l’epos quotidiano, il melodramma del contemporaneo, giocato nella consueta grancassa casual, con una serie reiterata, dunque prevedibile di primissimi piani e ralenty ad effetto, con fotografia carica e musiche pop a descrivere e commentare: niente di nuovo, ma nemmeno niente di esecrabile, al di fuori di un’affezione ingenua per il proprio stile, indulgenza con cui ben altri nomi della scena cinematografica internazionale ammorbano gli schermi, impuniti ed osannati da molto più tempo di un Dolan.
Capitolo attori: fanno esattamente ciò che devono. Il portato emotivo seppur segmentato e sbilanciato non inficia la loro prova: Kit Harington, ex Jon Snow del popolarissimo trono di Spade, parla con gli sguardi, trattiene e lascia andare la sua enorme magnetica fragilità, mentre il piccolo Tremblay, il bambino di Room, non manca di sorprendere per presenza e maturità espressiva. Chi parla di overacting, in questo caso, sinceramente non credo conosca il significato del termine; a maggior ragione se guardiamo alla sfilza di close-up con cui si esprime il regista, rispetto ai quali ogni esagerazione recitativa avrebbe un evidenza tremenda, .
E’ difficile essere intimi e confezionare un prodotto di livello: qui per tenere fede al proprio spirito qualcos’altro è meno riuscito; oppure si può dire che per ottenere un risultato che è stato imposto con determinate attese fattezze ed una qualità inattaccabile, parte della visceralità si è raffreddata in post produzione; in entrambi i casi il film soffre di un disegno interno più grande, voluto o eterodiretto, che potrebbe più di come riesce; ma non è scandalosamente indegno come certa critica ha gridato.
Da qui nasce la riflessione: perché alcune storie entrano di diritto nella cultura ed altre sono classificate come inutili, irreali e superficiali, quando entrambe parlano di cosa sia e dove vada la società che abitiamo; quando un argomento o un ostile devono dirsi esauriti e quando è solo stanco ed arbitrario giudizio personale; perché solo certe persone possano dire la propria per combattere paura, sessismo, omofobia, razzismo e bigottismo ed altre, definite privilegiate, no; perché c’è chi ha il monopolio su un certo modo di fare e dire cinema e tutto il resto non viene riconosciuto mai parimenti interessante; perché non si ammette una salutare invidia, se non per l’arte almeno per il carattere o il successo altrui, e non si alza la voce altrove, per esempio chiedendo una riforma del settore che permetta al sistema nostrano, malato di diverse ed insoffribili patologie, di lasciar emergere personalità giovani che possano competere con gli estri coetanei del panorama internazionale.
Sono domande che non nascono dal film, incredibilmente molto più semplice; ma dall’accanimento critico che ne è derivato. E’ legittimo essere dubbiosi, certamente non convinti, perché no annoiati, finanche rancorosI; ma stupidi, no, grazie.