“I peccati del padre devono ricadere sui figli” scriveva Shakespeare nel III Atto de “Il mercante di Venezia”. “Nessuno è come mio padre” canta Beyoncé, un bel po’ di tempo dopo. Che il rapporto padre-figlio sia qualcosa da maneggiare con cura è cosa chiara. Di certo deve aver rinunciato a decifrarne la spinosa natura chi sceglie di citare l’eterno drammaturgo inglese e la regina dell’R&B insieme, così en passant, quasi accidentalmente. Si apre così “Come to Daddy”, facendosi largo fra contrasti e parossismi. Dietro la macchina da presa Ant Timpson intende regalarvi tutto ciò che un inizio così ironicamente preoccupante lascia presagire. Umorismo nerissimo, dialoghi cattivissimi, insani ghigni e meraviglia demenziale dilagante.
“Come to Daddy” è il debutto alla regia di Ant Timpson. Si tratta della sua opera prima in qualità di film-director, ma il suo nome è inciso nel cemento della hall of fame dell’horror già da tempo. Timpson è lo scriteriato produttore di Turbo Kid, Housebound e Deathgasm. E come se non bastasse insieme all’amico Elijah Wood ha tramutato in untuosa realtà “The Greasy Strangler”, quell’indimenticabile provocatoria follia che nel 2016 ci offrì il ritratto di famiglia più triviale e violento degli ultimi anni.
Scoperchiando l’eccentrico barattolo in cui “Come to Daddy” ha nascosto la sua anima degenerata scopriamo che sul fondo giacciono proprio i nomi della squadra di “The Greasy Strangler”. Elijah Wood mette i suoi stralunati occhioni blu a disposizione di Timpson, che questa volta si mette s-comodo sulla poltroncina di regia; mentre Toby Harvard è nuovamente l’uomo destinato alla sceneggiatura. E così anche “Come to Daddy” sembra avere tutte le carte in regola per essere ricordato come una sfocata foto di famiglia maledettamente sgarbata.
Questa storia scorretta ha inizio in un casa di legno costruita sulla roccia, davanti al mare della Nuova Zelanda. È l’incredibile faccia inebetita di Elijah Wood a bucare immediatamente lo schermo. Il suo nome è Norval Greenwood, il suo aspetto quello di un hipster imbranato. Anfibi, cappello a tesa larga, abiti di almeno due taglie più grandi scelti con falsa non curanza. Dice di essere un “big of music business”, un po’ DJ, un po’ produttore, forse persino un po’ amico di Elton John. A convincerlo a lasciare la sua Beverly Hills è stata un’inaspettata lettera del padre. Un padre che lo ha abbandonato quando aveva cinque anni e che ora ha bisogno di incontrarlo. Così Norval ha attraversato mezzo mondo per bussare a quella porta di legno fronte mare. Ma quell’uomo non è affatto come se lo sarebbe aspettato.
Ad aprire quella porta è un uomo (Stephen McHattie) dall’insano sguardo da rapace, stranito e glaciale. Un ubriacone insensibile, relegato in quella solitaria abitazione che sembra “un disco volante degli anni ’60”, capace di prendersi gioco di qualsiasi imbranato tentativo del figlio di impressionarlo. Nemmeno il maldestro tentativo di un selfie perfetto, con il blu del mare sullo sfondo, riesce a farli avvicinare. Il telefono cellulare dorato in edizione limitata, a causa della perenne ubriacatezza del vecchio, finirà per frantumarsi sulle rocce. E con lui anche le ultime speranze di Norval di ricevere un tenero abbraccio paterno.
Da un lato un uomo che vive ancora con la madre, che non sa definire la sua professione se non mediante una lunga perifrasi, con un taglio a ciotola e baffi da bohémien malriuscito. Dall’altro un uomo dal disgustoso machismo, che ammette di andare pazzo per le scazzottate e di aver strappato un orecchio con i denti, che affetta la carne armato di coltellaccio e ghignata sinistra. Sono molti gli indizi che fanno presagire che questa “armoniosa” riunione di famiglia non era cosa buona e giusta.
Da una storia imbevuta di uno smisurato sarcasmo sull’ingiustificata fiducia nelle capacità genitoriali dell’essere umano questa si tramuterà in un racconto macchiato di sangue e genuino splatter. Se ve lo steste chiedendo, vi assicuriamo che non sentirete minimamente la mancanza di crudeltà gratuita e violenza nonsense. Dalle torture perpetrate con biro imbrattate di escrementi agli uomini che si mantengono in piedi con parte del cervello in bella vista: nulla vi farà rimpiangere di aver scelto “Come to Daddy” per una rassicurante serata davanti allo schermo. Per non dimenticare quel nutrito gruppo di “geologi” che assistono nudi e spaventati a tutta quella rigurgitante brutalità.
E mentre il grottesco si impadronisce dello schermo assistiamo anche alla trasformazione di Norval. La spietata brutalità talvolta apre le porte all’età adulta, ma meglio tenere lontano da Elijah Wood il forchettone della griglia. (Please!)
L’attore aveva già dimostrato di nutrire una certa meravigliosa inclinazione nei confronti di personaggi eccentrici e difficili da codificare. Ve lo ricordate in “I Don’t Feel at Home in This World Anymore” di Macon Blair? Da quando Frodo ha abbandonato la Terra di Mezzo ha saputo coraggiosamente lanciarsi in progetti audaci (“Maniac”, “Cooties”), per non dire azzardati (“Open Windows”), talvolta, ammettiamolo, ben poco riusciti (pensiamo alla produzione di “The Boy”, ad esempio). Eppure non in molti lo avrebbero fatto. Elijah Wood deve avere dentro di sé una pura passione per le avventure folli e le derive horror. E quella di “Come to Daddy” deve essergli sembrata una succulenta occasione per imbracciare armi creative e far scorrere un po’ di sangue. Il tutto senza essere costretto ad abbandonare quell’aria frastornata da bravo, ma strano, ragazzo.
E Elijah Wood ci riesce, e anche molto bene. Impacciato al punto giusto, ci restituisce l’immagine di giovane uomo che non sa quel che sta facendo ma sa di doverlo fare. Ora è chiamato a prendere a pugni nei denti quel fardello di traumi generati dall’abbandono del padre. In questa narrazione strapiena (almeno nel finale) di paradossale violenza, Wood riesce a regalare al suo personaggio uno spessore affatto scontato. Il suo appare come un dolore sincero, vivo, e questo rende l’intero film molto meno facile di quanto potrebbe sembrare.
Ant Timpson ci trasporta in questa armata adunata familiare utilizzando una lunga premessa in cui nulla accade davvero (ma comunque imbottita di sinistri presagi). Nel frattempo ci mostra di aver un ottimo gusto per la messa in scena e introduce personaggi secondari, per nulla determinati per la riuscita del racconto, ma molto adatti a creare la giusta atmosfera. Poi perde il controllo, non riesce più a trattenersi, e fa succedere di tutto.
Timpson ha una poderosa capacità di costruire la scena, un raffinato gusto per la composizione e una particolare bravura nel girare gli interni. Le inquadrature sono eleganti e ariose (anche negli interni, grazie all’utilizzo del grandangolo, come accade nella scena che ritrae Norval e il padre seduti in un buio salotto illuminato solo dal fuoco del camino). Ma quando l’azione si costringe in ambienti claustrofobici anche la scelta registica cambia, facendo prevalere inquietanti e spaventati primi piani. La fotografia di Daniel Katz è brillante e accende di mistero le numerose scene girate in ambienti poco illuminati (bizzarri motel e insospettabili celle sotterranee). Uno stile raffinato per una storia che sceglie di non esserlo affatto, che vuole a tutti i costi risultare scorretta e villana.
“Come to Daddy” è un film assurdo, che non scende a compromessi, lurido e un po’ toccante.
Consigliato a stomaci coraggiosi. E soprattutto a chi non teme di essere messo davanti a grandi verità esistenziali. Chi ha occhi piccoli e appassiti sta mentendo. Bere molta acqua serve sempre, anche ad affrontare un lutto. E impacchettare il nemico nella pellicola da cucina è una pratica assai comoda per poter continuare a picchiare duro sul suo cranio.