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La donna alla finestra: recensione del film Netflix di Joe Wright con Amy Adams

La recensione dell’ultimo film di Joe Wright, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo dello scrittore newyorchese A. J. Finn. Un thriller derivativo che spreca un cast stellare capitanato da Amy Adams. Disponibile su Netflix dal 14 maggio

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Era stato annunciato già nel 2018. La 20th Century Studios aveva apparecchiato il suo compimento sul grande schermo, acquistandone i diritti in tutta rapidità.

Per la regia era già stato arruolato il londinese Joe Wright, reduce dal successo “L’ora più buia” con Gary Oldman. Il film sarebbe dovuto uscito in sala nel 2019, ma la sua distribuzione è stata ritardata dopo la richiesta di ri-editing del nuovo proprietario della Fox Walt Disney Studios Motion Pictures. Nel maggio 2020 “La donna alla finestra” è finalmente pronto per il grande salto distributivo ma questa volta è la pandemia da Coronavirus a sbarrare le porte delle sale cinematografiche. Fallito l’approdo al grande schermo, il film di Joe Wright si è accomodato su Netflix: la sua visione è finalmente disponibile in streaming mentre scriviamo

Se trovi un diario in un bar, la curiosità ti fa venir voglia di guardarci dentro. Quando chi siede accanto a te sull’autobus è immerso tra le pagine di un libro, la curiosità ti spingerà a sbirciare la copertina. Se la tua casa è corredata di tante finestre l’incanto dell’indiscrezione ti imporrà di affacciarsi ad osservare. “La donna alla finestra” è uno spazio messo in cornice entro il quale tanti occhi si avvicendano a guardare. Gli occhi azzurro limpido di Amy Adams, costretti entro le mura domestiche a causa della fobia degli spazi affollati, incontreranno il mondo nel delimitato universo visitabile dalle finestre, dagli schermi televisivi, dall’obiettivo di una Reflex. Occhi paralizzati su realtà cristallizzate nel vetro e anime intrappolate nei ricordi, nell’immaginato, in perenne fuga dal reale. 

“La donna alla finestra” è l’adattamento dell’omonimo romanzo di A. J. Finn, pseudonimo dello scrittore statunitense Daniel Mallory. Si tratta di un romanzo dalle potenti inclinazioni cinematografiche tanto che la casa di distribuzione e il suo produttore Scott Rudin (“Non è un paese per vecchi”) non hanno saputo trattenersi dal mettere a disposizione un cast straordinario. In questo thriller psicologico dalle grandi aspirazioni troviamo i premi Oscar Julianne Moore e Gary Oldman (formidabili ma colpevolmente relegati ad un numero limitatissimo di scene), la sei volte candidata Amy Adams (vera essenza della pellicola – si conferma di una bravura sorprendente), e Jennifer Jason Leigh (che ricorderete in “The Hateful Eight” di Tarantino – qui pressoché inutilizzata).

La donna alla finestra

La donna alla finestra…sul cortile

Sceneggiato dall’attore e drammaturgo Tracy Letts, (sceneggiatore di “Killer Joe” di William Friedkin), “La donna alla finestra” azzarda audacemente una rilettura in chiave moderna del capolavoro di HitchcockLa finestra sul cortile”.  Nel 1954 lo spettatore indiscreto alla finestra era Jeff: un fotoreporter costretto su di una sedia a rotelle a causa di una frattura alla gamba, incapace di mettere a riposo il suo affamato spirito di osservazione. Nel film di Wright il testimone trattenuto alla finestra è Anne: psicologa infantile agorafobica, trattenuta lontana dal mondo dalle sue paure e mantenuta in vita solo dalla curiosità che i suoi vicini le ispirano. Personaggi ugualmente invadenti, costretti, appartati. Ma se Hitchcock non rinuncia mai al suo caratteristico humor, Wright propende per un thriller dai toni cupi, adatti a veicolare il disagio psicologico di Anne.

Eppure in una pellicola costruita per celebrare la suspence, a rivelarsi fragile è proprio la struttura della tensione. L’insopportabile frustrazione di Jeff, che assiste al di là di un vetro senza poter agire, scarseggia tra le mura domestiche di Anne. “La donna alla finestra” cita in modo intelligente il cinema che intende omaggiare, senza nascondersi (tra immagini di film e simboli della filmografia hitchcockiana) e regalandoci intuizioni di regia sorprendentemente ispirate. Ma confinandolo in un intreccio narrativo non molto entusiasmante perde di vista l’obiettivo principe del thriller hitchcockiano, ovvero quello di sconcertare e stupire.

Joe Wright prepara una trappola visivamente perfetta per imbrigliare l’attenzione dello spettatore ma finisce per dimenticare al suo interno la chiave per uscirne. Perdendo di vista l’uso dell’ambiguità delle immagini, ben utilizzato nel corso della prima parte del film, “La donna alla finestra” finisce per affrettarsi in giustificazioni didascaliche e disgraziatamente attese, ed essere così schiacciato dalla prevedibilità.

La donna alla finestra

Amy Adams è la testimone inattendibile perfetta

Anne (Amy Adams), in compagnia di pillole beta-bloccanti e di calici di vino in pessima sintonia tra loro, trascorre le proprie giornate affacciata alle sue finestre di New York. Sullo schermo della sua tv si avvicendano le immagini di vecchi film. E la sua Reflex scatta annoiata qualche foto al banale scorrere delle vite altrui.

Ma se è vero che la curiosità è indice di uno stato depressivo ridimensionato, come afferma il suo terapista (Tracy Letts – anche sceneggiatore del film), è possibile rintracciare in quella insana voglia di fagocitare le vite altrui la possibilità di recuperare la propria autodeterminazione. L’inclinazione alla stretta sorveglianza di quel che accade nelle case in cui i suoi occhi riescono a sbirciare viene così incoraggiata. Fino a quando la sua curiosità viene ripagata con il verificarsi di un fattaccio in casa Russell (Gary Oldman, Fred Hechinger, Julianne Moore). Anne, testimone casuale di un delitto, dovrà trovare un modo per far ascoltare la sua voce di teste “inaffidabile”, una voce ottenebrata dalle paure e appannata dal disordine interiore.

La regia di Wright è ricercata ed elegante, dedicata alla descrizione del paesaggio psichico delirante e confuso della protagonista. La telecamera si inclina, si avvicina ad occhi sgranati e sgomenti, si paralizza dinanzi alle finestre sul mondo esterno, si immerge nel buio degli interni. Le atmosfere narrative, ritmate dal montaggio di Valerio Bonelli (il cui lavoro enfatizza perfettamente quello registico di Joe Wright), sono riuscite e coinvolgenti. Il fascino complessivo della pellicola deve moltissimo ai suoi interpreti. In particolare a Amy Adams e a Julienne Moore, perfette in quel siparietto nevrotico in cui si consuma il loro incontro. Momento che avremmo tanto voluto prolungare più a lungo. 

“La donna alla finestra” è cosparso di profumo hitchcockiano in ogni scena

Da “Vertigo” riprende il tema del doppio, da “Marnie” recupera i fascinosi viaggi nei toni del rosso, “Io ti salverò” è il film che Anne guarda nel torpore alcolico alla TV. Purtroppo però tutte queste suggestioni cinematograficamente paranoidi sono raffreddate dalla progressiva incomprensibile voglia di rendere il tutto significativo e razionale. La doppiezza e l’enigma perdono vigore e tutto diviene facilmente intellegibile.

La cura nella composizione dell’immagine e l’attenzione per la costruzione degli ambienti sono gli elementi meglio riusciti della pellicola. Gli attori si collocano spesso al centro della scena: porte, finestre, obiettivi fotografici ne incorniciano l’immagine. “Ho bisogno di essere al centro di qualcosa” confessa il personaggio di Amy Adams. Una necessità viscerale che si riflette nell’architettura dell’immagine. 

Eppure “La donna alla finestra” normalizzando le pulsioni dei personaggi finisce per svuotare di attrattiva gli spunti visivi così ben meditati. Joe Wright tenta l’impossibile pur di salvare il suo film dall’anonimato, personalizzando al massimo ogni inquadratura. Sfortunatamente il risultato non è quello sperato. “La donna alla finestra”, vittima di una sceneggiatura frenata e farraginosa, si dimostra un film derivativo invitante, ma non convincente.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"La donna alla finestra" gode di ispirazioni, citazioni e celebrazioni. Un thriller dalla confezione inappuntabile costellato di fascinosi spunti di regia la cui riuscita viene sfortunatamente intralciata da una sceneggiatura che sottrae suspence e imprevedibilità ad un prodotto che ne aveva assoluto bisogno.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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