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Il mio profilo migliore

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Claire (Juliette Binoche) è una professoressa universitaria di letteratura, vicina ai cinquanta, con due figli ed un ex-marito andato via con una donna incredibilmente più giovane di lei. La sua vita da signora single è ravvivata da Ludo, ragazzone trentenne che ama divertirla come e quando può, ma che non vuole impegnarsi.

Delusa da questa distanza emotiva e stanca di sentirsi fisicamente insicura data la differenza anagrafica con il suo fascinoso fidanzato, Claire si inventa un’ identità virtuale alternativa e le dà forma sui social: crea un nuovo profilo facebook, sceglie il nome di Clara, decide di avere ventiquattro anni e di fare la stagista, ha lunghi capelli quasi biondi, occhi chiari e luminosi.

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Così, nella speranza di riconquistare Ludo, Claire chiede l’amicizia al suo amico e coinquilino, il fotografo Alex: è proprio quest’ultimo a cadere ed essere sedotto dalla voluta/non voluta trappola di immagini fittizie, chat reali, idee, parole sussurrate al telefono, imbastite, con visceralità e leggerezza insieme, da Claire, tali da rendere in breve tempo i due sconosciuti un’improbabile coppia di amanti, senza che l’uno abbia mai incontrato l’altro personalmente.

Amore a distanza, reale, ma non concreto, sincero, ma privato dei cinque sensi: nasce, cresce, esplode ed implode una relazione viscerale, di difficile gestione. Giorno dopo giorno, messaggio dopo messaggio, confidenza dopo confidenza, progredisce la vicinanza e insieme l’impossibilità di un legame che possa dirsi veritiero tra una donna che gioca a farne un’altra per sentirsi nuovamente viva ed un ragazzo innamorato nel midollo, più fragile e coinvolto di quel che appare.

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Claire ci racconta di lei ed Alex in un lungo flashback confessato davanti alla psicanalista (Nicole Garcia, molto convincente) di una clinica in cui si è ricoverata da alcuni mesi: qualcosa  è successo, qualcos’altro non è successo; la verità non è quella che ci si aspetta, mai, emerge a brandelli dolorosi e spiazzanti; e per ogni versione dei fatti c’è un suo doppio, reale o immaginario, detto o taciuto, definitivo o interlocutorio che complica, sfinisce, rende attonita e priva di una conclusione questa nouvelle “liasòn dangereuse”.

E’ proprio de Laclos e le sue Relazioni pericolose, in cui i sentimenti sono ostaggio di trame libertine studiate e rinnegate a tavolino, che ritroviamo tra gli autori e i testi cardine di questa storia, spiegati e citati dalla stessa Claire nelle sue lezioni agli studenti; accanto c’è Ibsen il  drammaturgo nordico che dal suo fine Ottocento rivoluzionò la figura femminile nel contemporaneo facendo abbandonare la casa coniugale alla bambola perfetta, Nora; infine c’è la più classica hitchcockiana Donna che visse due volte, di cui Claire ed Alex emergono come sin troppo facili metafore, tra le pieghe di finali e finalissimi che qui capovolgono prospettive e considerazioni.

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Oltre queste ispirazioni letterarie e cinematografiche, la fin troppo variegata trama è ufficialmente un adattamento del romanzo di Camille Laurens che porta il titolo originario e significativo del film Celle que vos croyez, Quello che vi pare; il regsita Safi Nabbou cita, allude, riflette, distorce fatti e passioni in essi contenuti, a vantaggio di una complessità emotiva magnificamente resa dalla protagonista, e a svantaggio di una verosimiglianza di accadimenti, che soffrono la quantità di colpi di scena e di supposti finali, perdendo efficacia e punto di vista convincente.

Sicuramente emerge chiaro il conflitto sulla necessità fisiche di una donna all’alba del suo sfiorimento: provare ancora desiderio, sentirsi abbracciata, baciata, cercata, voluta, poiché senza questo cos’è l’amore e cosa resta, anche, dell’essere donna. Sacrosanta pulsione alla vita, complicata da stereotipi vecchio stile ed ingombranti giudizi collettivi, dalla famiglia croce e delizia di ogni vita femminile, dagli sbagli passati e dalle incertezze presenti: tutto trascolora nel volto bellissimo ed ineffabile della Binoche che passa da una stagione all’altra senza perdere nulla della suo fascino enigmatico e disarmante, osservarla è sempre una gloria, in quanto attrice senza tempo, sia per fisicità sia per talento.

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Lei stessa rivela alla psicanalista: “non fingevo di avere ventiquattro anni, io li avevo davvero”, e la luce del suo incarnato risplende, gli occhi ri-vedono, il cuore torna a battere, il tempo si ferma, tutto è controllabile, niente può infrangersi; ancora aggiunge: “non cercavo di vivere la vita di un’altra, io cercavo di vivere la mia”.

E qui si apre il problema dello schermo social, che permette di essere chi si preferisce, a volte anche rubando vite e fattezze altrui pur di apparire nel modo che più soddisfa, ma che non corrisponde a verità: l’impero dei sensi si costruisce in rete, qui si sfoga, qui si idealizza, qui si vivifica, paradossalmente, più che nel reale, come un film di cui siamo registi, e in cui nulla può andar storto, minimo sforzo e massimo godimento. Almeno finchè dura, finchè lo lasciamo durare.

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Il film prosegue in un labirinto di binari paralleli: se seguiamo l’uno, Claire non si rassegna ad aver perso l’amato e lo rincorre nell’immaginazione letteraria che le è propria, se seguiamo l’altro l’amato è già altrove, al sicuro, fuori dalla realtà della donna, che quasi sfiora la patologia, o almeno così ci viene presentata.

Lo scarto tra realizzabile ed impossibile è sfocato, riaffiora come limite di una storia non corretta né vivibile di cui Claire non accetta lo smarrimento, perdendo di vista il controllo della sua vita, che non sembra trovare più un giusto e sano respiro dopo l’abbandono dell’amato, o la scomparsa dello stesso, o la cancellazione di un profilo, tre eventi che qui hanno identico impatto devastante: esistere oppure esserci fittiziamente solo come foto profilo, come voce, come caratteri di una frase digitata in chat diventano possibilità equivalenti, feriscono in modo uguale, anzi, poichè nel mondo virtuale la responsabilità diretta è accantonata, il rischio di disillusione sale.

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Non serve l’acqua, che più di una volta bagna il volto e il corpo di Claire come pioggia, come doccia, come bagno simbolico che ne sospende la coscienza oltre il rumore delle sue ansie, a ridarle equilibrio e senso delle cose: la sua anima vuole restare innamorata, non prescinde dall’amore, e il suo telefono continua a squillare o ricevere notifiche.

Così la commedia sentimentale che la vedeva protagonista scivola in un’amarezza immaginabile e più oltre in un odore noir inaspettato, che in parte toglie forza alla riflessione principale.

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Il film, in effetti, manca parzialmente di una direzione unitaria, si confonde in interpolazioni di altro genere che ne fiaccano la credibilità, distraendo l’attenzione dalla forza dello spunto iniziale e allentando un ritmo già non brillante.

Notevole, quasi teatrale, il gioco di fotografia ambra e ghiaccio, che si riflette a specchio sul volto di Claire nelle sue sessioni notturne con il giovane amante, luce che cammina sul baratro, alternata a freddi esterni, grigi come la mancanza di prospettive di una donna.

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Va bene morire, dice Claire, ma non abbandonata: è la solitudine lo spettro del nuovo mondo ipertecnologico, la connessione social la combatte in superficie e la inasprisce in profondità; chi avverte il gap, inizia la propria pericolosa fuga a rincorrere la vita; a maggior ragione se appartiene, come Claire, a quella categoria di donne per cui, come diceva in modo lucido e profetico Marguerite Duras, la rovina del tempo è passata per gli anni più giovani e più celebrati della vita. Per me a diciotto anni era tardi.

Voto Autore: [usr 2,8]

Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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