Il caso Minamata (2020) è un thriller drammatico e biografico diretto da Andrew Levitas.
La pellicola, adattamento cinematografico del libro di Aileen Mioko Smith e di William Eugene Smith, importante fotoreporter statunitense, narra le vicende che l’hanno portato a denunciare le mostruosità della malattia Minamata (una città costiera del Giappone).
Il film, di forte impatto visivo e tematico, rappresenta un’importante accusa contro le atrocità perpetuate dalle industrie sull’ambiente e le comunità umane coinvolte, ma anche il vero ritorno sugli schermi dell’istrionico Johnny Depp.
È stato presentato alla 70ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino.
Il caso Minamata – Trama
New York, 1971. W. Eugene Smith (Johnny Depp – Jeanne Du Barry; La nona porta; Edward mani di forbice; Paura e delirio a Las Vegas), fotografo di guerra in declino, affoga i suoi problemi nell’alcol. Nonostante i successi passati, sente di essere un fallimento e ha smesso di credere nel potere della fotografia.
Un giorno, riceve una proposta: recarsi in una piccola città costiera del Giappone, Minamata, per indagare su una devastante malattia che sta affliggendo la popolazione ed è causa di gravi deformità neurologiche e morte.
Ben presto si scopre che la malattia è provocata da avvelenamento da mercurio, scaricato illegalmente nelle acque da parte della Chisso Corporation, una potente azienda chimica locale.
Inizialmente scettico e riluttante, Smith accetta l’incarico. Con l’aiuto di Aileen (Minami Bages) attivista e traduttrice giapponese, e di alcuni membri della comunità (Hiroyuki Sanada, Ryō Kase e Tadanobu Asano), Smith ritrova la sua passione, il senso di responsabilità sociale e i suoi scatti tornano ad essere un’arma potentissima, capace di rivelare verità schiaccianti al mondo intero.
Il caso Minamata – Recensione
Il film nasce durante le turbolenze legali vissute da Johnny Depp e conferma il suo talento poliedrico. Non stupisce la sua bravura nell’interpretare un quasi reietto alcolizzato e ribelle. La veste nuova è vederlo nei panni teneri e amorevoli di un padre o di un compagno premuroso. Non poteva esserci ritorno migliore e redento di uno degli attori più amati dal pubblico e maltrattato dalle più grandi major cinematografiche.
Tutto il cast è eccezionale e non stanca il continuo alternarsi di lingue parlate dai personaggi. Ma la vera protagonista indiscussa è la fotografia, a colori, in bianco e nero, alternata, intensa e profondamente suggestiva. L’intero film è un quadro vivente fatto da immagini realmente scattate e leggermente in movimento. La scelta stilistica di Benoît Delhomme dona la coinvolgente sensazione di trovarsi di fronte a fotografie interpretate.
Le inquadrature sono poeticamente studiate e spiegano alla perfezione il significato di quel momento visivo all’interno della storia. I primi piani sono attenti e scrutatori sul volto del Presidente della Chisso Corporation, gelidamente disumano all’inizio, poi sudato e fintamente composto nei momenti di difficoltà (merito anche di un brillante attore come Jun Kunimura).
Anche la scena del confronto tra manifestanti e capi aziendali vede dapprima un distacco fisico gerarchico e successivamente uno strano cambio di postazione (il capo dei manifestanti siede a gambe incrociate sopra il tavolo del Presidente e lo guarda minaccioso dall’alto verso il basso, mentre un reporter lo fissa negli occhi, dal basso, in ginocchio, supplichevole, minaccioso e disperato allo stesso tempo).
Infine, le fotografie di Smith, già vive nella loro immobilità, riprendono vita, mentre le parti recitate vengono immobilizzate magnificamente come istantanee. Tutto diventa uno scatto da mostrare e raccontare.
Tomoko e la mamma al bagno (le scene più belle)
Se amare è nutrire una persona, cosa c’è di più bello di una madre che nutre un figlio incapace a nutrirsi da solo? Così inizia il film e così finisce. Una ninna nanna e la dolcezza infinita di una mamma che tenta in ogni modo di alleviare le pene della creatura che ha messo al mondo, impossibilitata a vivere. Tomoko e la mamma al bagno resta uno dei simboli più potenti di tutto il film, ma soprattutto una delle immagini più importanti del fotogiornalismo.
“Continua tu a suonare la tua musica”. Smith si accascia su di una panchina e parla con un giovane ragazzo deturpato dalla malattia, sebbene non sia compreso. Gli dona la sua macchina fotografica e questo si alza, a stento, felice e sorridente, mentre scatta con fatica, ma anche energia, le sue prime foto. Lo stesso ragazzo gli chiederà in giapponese: “tu non hai paura di toccarmi?” e alla risposta di Smith lo avvolgerà con uno slancio, un abbraccio che vale più di mille parole.
Quella de Il caso Minamata è una storia vera e di empatia. Eugene e Aileen si infiltreranno segretamente in ospedale in cerca di prove schiaccianti, ma parleranno anche con i pazienti, li faranno ridere, donando loro quel conforto e quell’agognata parvenza di leggerezza di cui hanno bisogno.
“Vuoi toccare la mia barba? Non se ne vedono molte qua in giro”. Al Signor Smith viene chiesto di badare alla figlia della famiglia che lo ospita. A dispetto dell’iniziale riluttanza e difficoltà, lo vedremo in un momento di inaspettata dolcezza. Avvicina il mento per far sentire la sua barba, giocherella con lei, cullandola, le canta una canzone e accarezza quella figlia non sua.
Verso il finale del film il fotografo torna a casa, resta immobile, senza parole e visibilmente commosso. Una madre sta lavando il figlio e gli sussurra delicatamente le note di una nenia. Come la pietà di Michelangelo, la madre tiene il figlio tra le braccia, in un bagno d’acqua, quasi morente, abbandonato all’amore della donna che gli ha dato la vita. E foto fu, immortale nel tempo.
La dignità giapponese e i moti dell’anima
Passa quasi in sordina e con garbo la storia d’amore nata tra Smith e Aileen. “Accarezza la foto, con il calore delle mani. È così che si scatta una storia”. Nella stanza rossa per lo sviluppo delle fotografie, lui finge di scattargliene una con le mani, cogliendo il momento. Lei lo bacia. È un amore profondo unito dalla stessa battaglia, dallo stesso onore. Lei rappresenta quell’anello essenziale di comprensione che lega la cultura occidentale americana di Eugene con quella orientale nipponica.
Quando chiede alla gente del posto di trascorrere del tempo prezioso insieme, per affrontare le ingiustizie subite, trova nello sguardo di Aileen l’orgoglio di una morale ritrovata e di una lotta giusta. S’inchina per ringraziare, come di uso. Glielo insegna lei. Ritrova anche i negativi, grazie alla gratitudine di un’anziana signora dell’ospedale a cui aveva donato un po’ di spensieratezza.
Persino nelle scene di protesta si vedono delineate le caratteristiche di un popolo “per bene”. Da una parte, un gruppo di manifestanti siede a terra, in segno di rispetto, con il capo chino verso la porta dell’assemblea degli azionisti. Dall’altra, quelli più furiosi, fuori i cancelli, lanciano il pesce contro le guardie (la malattia si era diffusa tra la popolazione principalmente con la contaminazione di questo alimento).
“Signor Presidente. Non siamo qui per arricchirci, ma solo per sapere che verremmo assistiti e che potremo morire in pace. Se lei è un essere umano, ascolti quello che le diciamo”. Il freddo e indifferente “mi dispiace” come unica risposta scatena l’ira di un reporter presente all’assemblea (era quello che l’aveva supplicato in ginocchio). Si taglia le vene e urla: “il mio sangue è sulle vostre mani”. O la dignità o la morte.
Quando le foto di denuncia escono sui giornali e fanno il giro del mondo, fino ad arrivare in Giappone, lo stesso Presidente accetta la sconfitta e tuona con la calma del suo ruolo: “Dobbiamo pagare. Troveremo un modo (minuto di silenzio e sudore) Dobbiamo!” (in modo secco e deciso).
Le parole commosse del capo dei manifestanti concludono con fermezza, grazia e discrezione un profondo senso di decoro, onore e fierezza: “Tornate a casa stasera e trovate un po’ di felicità con le vostre famiglie, perché domani avremo molto altro da fare: lottare per quelli che non possono!”
Conclusioni
Nella primavera del 1973 la Chisso Corporation accettò di rimborsare per intero le spese mediche e di sostentamento per le vittime della malattia di Minamata, la somma complessiva più elevata mai imposta da un tribunale giapponese. A fronte della iniziale soddisfazione della popolazione, né la Chisso né il governo giapponese hanno poi rispettato l’essenza finanziaria e morale di questo accordo.
Nel 2013 il primo ministro giapponese dichiarò che il Giappone aveva risolto il problema dell’inquinamento da mercurio, negando l’esistenza di decine di migliaia di vittime che continuano a soffrire ancora oggi. La rivista Life pubblicò il suo ultimo numero settimanale il 29 Dicembre del 1972. Il bagno di Tomoko è considerata una delle immagini più importanti nella storia del fotogiornalismo.
Gene e Aileen si sposarono il 28 Agosto del 1971 in Giappone. Gene morì il 15 Ottobre del 1978 come conseguenza indiretta delle ferite riportate alla fabbrica. Le fotografie di Minamata furono le ultime che scattò. Aileen è rimasta profondamente legata alle attività della comunità di Minamata ed è impegnata nella sua lotta contro l’inquinamento ambientale ancora oggi.
Le informazioni di coda vengono accompagnate da una carrellata di scatti reali delle manifestazioni e testimonianze di chi ha combattuto contro le ingiustizie e gli orrori causati dalla negligenza delle industrie.