Hotel Gagarin, edificio bizzarro in mezzo alle nevi armene sperduto come un miraggio di felicità, come i desideri che si sarebbero voluti esaudire ma non ce n’è stato modo.
Una riflessione dolceamara in scatola di commedia italiana sulle impossibilità e le possibilità che la vita ci propone, perché in fin dei conti sono davvero poche le cose che ci vengono imposte e infinitamente più numerose le scelte sbagliate o le occasioni saltate.
Apologo nostalgico e contemporaneo uscito nel 2018, con il merito di una propria spontanea, informale, atemporalità, Hotel Gagarin cavalca il già noto per poi sterzare su un’idea inedita, che spiazza, giustifica e concilia l’aspettativa.
Hotel Gagarin – Trama
La premessa è molto semplice e piuttosto vista: riunire insieme una banda di semi-disperati più o meno improponibili e chiuderla in un luogo isolato, inquietante e in qualche modo magico. La scusa è quella di fare un film, per intascare lauti fondi europei vincolati a determinate tematiche e a determinati luoghi.
Così quattro ignare pedine, Nicola (Giuseppe Battiston) un professore colto e disamorato, autore di una sceneggiatura tolstojana, Elio (Claudio Amendola) un elettricista da quattro soldi che ha paura della vita, Sergio (Luca Argentero) un fotografo di matrimoni perennemente fumato, in debito con la mala e Patrizia (Silvia D’Amico) una prostituta con nessun sogno nel cassetto promossa a prim’attrice, vengono spediti tra le regioni fredde dell’Armenia sotto la guida glaciale e doppiogiochista di Valeria (Barbara Bobulova), loro manager ed interprete.
Obiettivo girare un sedicente capolavoro in costume ambientato tra questi territori, spazi non casuali, che richiedono tempra e spirito, luoghi di guerre e genocidi, persecuzioni e scorribande internazionali, con un’energia profonda che pervade ogni distanza.
Dimenticati laggiù, nell’Hotel Gagarin, rifugio di tutti e di nessuno, con una guerra che scoppia nel frattempo e li costringe a non allontanarsi, l’improbabile equipe scopre il piano del finto film, getta la maschera e si ritrova a confessare la propria miseria ed insoddisfazione umana.
Ma fuori dalle mura di quell’eremo ovattato, si raduna una popolazione fitta e disorientata che, saputo che all’Hotel Gagarin si fa il cinema, vuole approfittarne e partecipare, per far avverare i propri sogni nascosti.
Hotel Gagarin – Recensione
Quando l’arte ti richiama alla vera natura, ti riassetta sul giusto asse, effettua una rivoluzione copernicana delle tue coordinate trasformando la vita tua e quella altrui, allora quell’arte diventa un Sacro Graal da custodire, promuovere e ricercare.
Nella favola di Simone Spada, fedele assistente alla regia di grandi nomi, qui al suo primo passo solista sul grande schermo, si materializza il senso del cinema per quelli considerati ultimi, inadatti, alienati dalla società.
I suoi protagonisti non hanno chance di felicità seguendo i percorsi unanimemente noti: il freddo dell’Armenia, l’ostilità di una lingua difficile ed incomprensibile, la solitudine condivisa e il confronto costruito tra loro, li obbliga a cambiare consapevolezze.
Da perfetta odissea di sconfitti a viaggio epico della vita
Non solo rispetto a se stessi, ma anche rispetto agli altri, ossia gli incredibili, a volte fantasmatici, abitanti di quei luoghi che impongono un cambio di passo e prospettiva, trasformando la perfetta odissea di sconfitti, in un viaggio epico ed appagante.
La popolazione locale rappresenta un coro di anime credenti, superstiti della fede nell’arte, intatti nella convinzione che il bello salverà il mondo. In ragione di questo vengono a bussare alla porta di un tempo e di uno spazio sacri quelli dell’infanzia, delle aspirazioni, dell’universo ancora incontaminato, quando tutto era ancora possibile.
Lo spazio sacro dell’infanzia e dei desideri
Così c’è chi sogna di fare il pistolero, chi di allunare come Neil Armstrong, chi di amarsi per sempre, chi di essere la ginnasta più eccezionale della storia e uno dopo l’altra questi racconti personali prendono forma, vengono inventati, cuciti, girati, trasformati in immagine, film, memoria personale e collettiva, condivisione di aspirazioni.
L’Hotel Gagarin diviene fabbrica di cinema, come in una fiaba irreale, nostalgica, un’industria che produce amore e buone sensazioni da regalare a chi ne fa richiesta perché la vita raramente lascia aperta la porta dei nostri desiderata.
Si allestiscono set, si montano carrelli artigianali, si illuminano volti, si inventano vestiti, si rimediano scenografie. Che soluzione migliore di questa per sconfiggere la paura della guerra, il mal di vivere, la finitudine di tutto?
Omaggio al movente di ogni film, i sogni personali
Una commedia partita in modo più che schematico, con il reclutamento della classica squadra di perdenti, avviata alla prevedibile fragorosa conclusione, vira nella seconda parte del suo sviluppo su un terreno inaspettato, che ha della dolce originalità bambina, spogliandosi di molti orpelli del caso.
Buono il soggetto e la sua inedita architettura, meno brillanti determinati dialoghi che ovviamente sono condotti in medias res a favore del consueto sfaldamento delle ombre e dei perché delle ombre dei singoli personaggi.
Fortuna che quando si smette di incanalare archetipi per far felice chissà quale pubblico, resta ad affascinare l’idea, l’immaginazione, la voglia di risplendere con la stessa arte cinematografica prima rabberciata poi dedicata alla nobile felicità altrui.
Splende il bianco delle nevi e il silenzio che si porta dietro, in una fotografia che sa abbacinare e contrastare, tra gli esterni e gli interni, tra la natura che disciplina ed insegna e il corpo rinchiuso con altri corpi in qualcosa di più grande di lui, spaventoso, eccitante, rivelatore.
Hotel Gagarin – Cast
Tra gli interpreti che hanno i giusti volti per questa strana avventura, spiccano la compostezza della Bobulova, amabile anche quando algida, e la bravura istrionica “mangiascena” di Tommaso Ragno, ovvero Franco Paradiso, produttore lestofante che ingaggia il disastroso team.
Battiston rassicura in abiti comodi per la sua indole, mentre piacerebbe vedere la D’Amico in una parte più distante dalla cifra che praticamente propone sempre nei suoi ruoli.
Colonna sonora trascinante e fotografia abbacinante
A mantenere il carattere frizzante, anche tra il freddo della sperduta Armenia, una colonna sonora effervescente, popolare, fin troppo presente, che sottolinea, commenta e velocizza molti passaggi, necessario tappeto del frequente montage in cui si accelerano gli eventi in una carrellata di episodi che ci lasciano immaginare come sono stati riempiti i due mesi di cattività.
Sarebbe piaciuto se la seconda parte, quella dedicata alla fabbricazione delle fantasie cinematografiche della popolazione locale fosse stata più insistita ed esplorata, a discapito delle vicende relazionali dei differenti caratteri dei quali si poteva facilmente indovinare lo sviluppo.
Un difetto di coraggio, forse di mezzi, forse di organizzazione, un’abitudine conveniente, ha fatto il resto, e si avverte nel film un mancato goal, potenzialmente più meritevole ed emotivamente più saldo.
Hotel Gagarin è la seconda chance della vita, il buon ritiro non calcolato, l’approdo che non si spera di meritare, un cambio di guida ad un passo dal precipizio, capace di ridare senso alle cose, tutte, ripartendo da quando, da dove, da come, avevamo iniziato a crederci.
D’altronde vale su tutti e su tutto l’unica citazione tolstojana del professore Battiston che sembra sintetizzare bene questa storia: Vuoi essere felice ? Comincia.