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Il grande passo: la recensione del film con Stefano Fresi

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Un piccolo passo per l’uomo un grande passo per l’umanità, disse Armstrong quando mosse il piede incappucciato sulla grigia superficie lunare: così incatenò una generazione al mito che l’affascinante e misteriosa Luna potesse essere scoperta e diventare alla portata della Terra. Non più qualcosa di lontano ed irraggiungibile, di cui ci si può limitare alla contemplazione disperata o speranzosa, ma un traguardo possibile, un altrove fortunato rientrante nelle capacità e nelle aspirazioni del genere umano.

Un saggio motto ammette che “sbaglia chi non si aspetta fortuna dalla luna” e molta letteratura e fior di cinematografia hanno cavalcato il mito del nostro satellite prediletto come fonte di ispirazione o come confessore di qualunque impulso od evento non sia compreso o non trovi spazio su questo suolo: ogni parola non capita, ogni desiderio non detto o non realizzato, ogni impresa ardita, ogni sfida di potere, ogni immaginario extra-normale, ogni fiducia non tradotta sembra trovare asilo nello spicchio argentato che da sempre ci illumina la notte.

Il grande passo

Perché dunque non dovrebbe accadere anche a Dario (Giuseppe Battiston), che vive in un casolare di uno sperdutissimo Nord Italia, tra campi a perdita d’occhio, statali semideserte ed un piccolo pollaio, ex-studente di ingegneria aerospaziale, fermatosi a pochi esami dalla laurea, un tempo persona affabile e tranquilla, da alcuni anni solitario, scontroso, schernito come il matto del paese, totalmente concentrato nella realizzazione del suo sogno, ossia raggiungere la luna con un razzo da lui inventato.

Durante un tentativo di portare a termine l’ardimentoso progetto, incendia il campo di un non amabile vicino, viene denunciato e finisce in galera. Non avendo nessuno al mondo ad occuparsi di lui viene contattato Mario (Stefano Fresi), suo fratello, stesso padre, diversa madre, che vive a Roma e gestisce una ferramenta, fisicamente simile a Dario, caratterialmente opposto, buono d’animo, disponibile ed affezionato: i due si sono incontrati solo una volta, ora si ritrovano a conoscersi concretamente e a dover superare in qualche modo il garbuglio di sentimenti familiari, tradimenti paterni, disagi, silenzi e miti infantili che li vede tragicomicamente protagonisti; perché la luna non può aspettare.

Il grande passo

A metà tra commedia e favola, generi attraversati dal film, ma non abitati definitivamente, con garbo e semplicità narrativa, si presenta l’opera seconda di Antonio Padovan, giovane regista, dall’immaginario radicato e fantasioso insieme, formatosi tra l’Italia e New York, debuttata al Torino Film Festival del 2019, dove la coppia Battiston-Fresi è stata premiata per la miglior interpretazione. Il lavoro si ispira per stessa ammissione del regista all’humus immaginifico di Spielberg e si nutre dell’atmosfera di provincia di Mazzacurati, ambiente quest’ultimo su cui Padovan aveva già tentato di fornire coordinate psicofisiche nel noir precedente Finchè c’è prosecco c’è speranza, suo esordio al lungometraggio.

Il grande passo

Da questi ambiziosi spunti trae forma Il primo passo, in cui il sogno di poter raggiungere la luna non significa solo staccarsi da un mondo che procura solo mal di vivere, ma è anche l’unico ricordo significativo di un padre, interpretato da Flavio Bucci nella sua ultima prova prima della recente scomparsa, che non ha mai saputo, né voluto farlo come si deve. Dunque c’è una componente personale a gravare sulla determinazione: la figura di un padre divisivo. Di lui, i due fratelli serbano in mente un’immagine differente: buona e portatrice di verità per Dario, che lo pensa in America a realizzare chissà quali scoperte geniali e rivoluzionarie, fallimentare e colpevole per Mario, che conosce i limiti di ogni sua inutile e bislacca invenzione, e ne ha patito la riluttanza e la vigliaccheria da povero diavolo. Sono stati entrambi abbandonati, sono frutto di una sconfitta: il più grande, maggiormente isolato e con ricordi alterati dall’infanzia dei suoi sei anni, il più piccolo, con la fortuna di avere accanto ancora una famiglia e qualcosa su cui banalmente, ma concretamente, investire.

Il grande passo

Così, nel tentativo di riequilibrare la vita di Dario, si compie un piccolo dramma epico familiare: si fanno i conti con il passato, si ritrattano false leggende, si ribadisce che la diversità di pensiero non è patologia mentale, si cementa l’empatia e si scopre un piacevole sconfinamento della propria umanità. E’ una storia maldestra e malinconica di fratellanza, di libertà dal pregiudizio, di fiducia nel prossimo, di maturità fuori dagli schemi, raccontata con leggerezza, pragmatismo ed amarezza insieme, dosando le parole, come ogni stretta comunità del nord insegna e sparpagliando goffamente la facile dedizione che un romano colpito al cuore può effondere.

Guardare al cielo o meglio allo spazio per consolarsi di ciò che non si ha in terra, rimanda ad una dinamica già raccontata in Tito e gli alieni, di Paola Randi, altra opera debuttata al Festival di Torino nel 2018, come a voler ribadire che l’atmosfera spaziale, sia essa tangibile come un pianeta od udibile come una voce, rappresenta uno spazio più familiare ed accogliente del nostro pianeta, suolo contaminato dalle plastiche dei piccoli imprenditori (vedasi l’ottuso vicino di Dario) e da piccoli egoismi di periferia.

Il grande passo contiene l’alto ed il basso, l’ascendenza della Luna, territorio di riscatto per l’antieroe solo contro la collettività e la collettività stessa che lo emargina, commentata in modo non liscio, coacervo brado di insoddisfazioni e miopie. Chi è incapace di comprendere e di accettare, giudica, emargina e, dove riesce, annienta: per questo Dario sogna il mare della tranquillità, che di tutta la superficie lunare è quella porzione di inganno luminoso sempre rivolta verso la Terra, ed anche il luogo esatto in cui è avvenuto l’allunaggio del primo uomo.

Un totem personale, un simbolo di realizzazione per chi non trova tregua, requie e necessità nel mondo che lo circonda, un modo di raccontare il disagio di molti, acuito proprio nelle piccole collettività, abbandonate ed ingrigite dai bassi orizzonti che tendono a respirare. Per i sognatori, gli scontenti, i non classificabili, gli allergici alle regole, i non conformi, non c’è spazio: perciò Dario se lo crea. E sarebbe un antieroe del tutto svitato e poco comprensibile se non esistesse il fratello, altro personaggio della stessa sponda, di carica magnetica differente, accorso a bilanciare la sua insofferenza, ad accettarne per istinto e commozione innata la natura atipica, benigna, ostinata ed autentica.

La fotografia parla per spazi ampi e vuoti, per colori silvestri che sanno di natura autunnale e per banchi di nebbia, il combustibile per affrontare l’agognato viaggio secondo Dario; mentre le musiche di Pino Donaggio sono classiche e benefiche, si fanno subito notare per come accarezzano il cuore con una benevolenza di fondo, testimoniando la presenza della dolcezza anche in certi dimensioni di solitudine. Cast azzeccato e mai sopra le righe, capitanato dal duo di fuoriclasse Fresi e Battiston, spalle complici in ascolto costante, presenze sceniche e verbali poderose e toccanti.

Meritorio il finale, coraggioso fuor di commedia, senza consolazione, sospeso nel dramma: ci ricorda la necessità che ogni sogno ha di arrivare al proprio traguardo, costi quel che costi: perché ciò che contraddistingue l’essere umano dall’animale è proprio la capacità di sognare, anche se questo potrebbe significare non rivedersi più. Le note finali rivisitate di Blue Moon lasciano smaltire quella sensazione di intraducibile lutto che si ha quando in un sogno ci si inabissa o lo si da per vinto.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Mario da Roma si ritrova in un paesino dello sperduto Nord per occuparsi del problematico fratello Dario di cui conosce poco o nulla e del suo sogno di raggiungere la luna. Storia di fratellanza e di padri non padri, di miti infantili e di miopia paesana; ispirata all'immaginario di Spielberg e alla provincia di Mazzacurati, una commedia amara e malinconica, che proietta sulla luna il disagio di vivere tutto terrestre.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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