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El Bar – Álex de la Iglesia

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Si dice che le certezze nella vita siano poche. Si può essere certi che il giorno seguente ad aver lavato l’auto pioverà, certi che la fila scelta al supermercato sarà sempre quella destinata a procedere più lentamente, e certi che l’inquisizione dei parenti a Natale vi farà respirare affannosamente anche quest’anno. Vi viene forse in mente altro?

Eccovi serviti. Una delle granitiche sicurezze su cui potete fiduciosamente contare porta il nome di Álex de la Iglesia. Perché state pur certi che il regista basco dietro la macchina da presa farà scoppiare sempre un gran bel casino. È sfrontata e impudente la voce fuori dal coro del cinema spagnolo, e il suo “El Bar” è un esperimento programmatico di dissacrazione della tradizione.

El Bar

Vi siete mai chiesti di quale materia è fatta la paura?  Dovremmo conoscerla bene la paura, in fondo la si prova fin da bambini. Eppure se il terrore bussasse alla porta della nostra quotidianità mentre stiamo andando al lavoro, o mentre frettolosamente ci concediamo un caffè al bancone di un bar sapremmo conservare la ragione?

Questi sono i tempi in cui l’incubo sembra annidarsi sotto una barba folta, celato dietro una lingua straniera o racchiuso dentro uno zaino da cui ci sembra sentir provenire costantemente un pericoloso ticchettio. Álex de la Iglesia agguanta tutto lo sgomento contemporaneo e lo barrica in un bar al centro di Madrid. Dentro quelle mura c’è tutta l’angoscia della nostra epoca: il sospetto, il panico, il mostro ci fissano dritto negli occhi e penetrano dentro di noi infettandoci fino alle viscere.

El Bar

Dopo “Ballata dell’odio e dell’amore” (Leone d’Argento a Venezia nel 2010), violentissima poesia circense, in bilico fra Fellini e Jodorowsky, e “Le streghe son tornate” (2013) adunata sterminata di streghe, dita amputate e bambini infornati, Álex de la Iglesia realizza con “El Bar” un thriller che mette in scena la fiera dei perdenti, che siamo noi, in tutta la nostra mostruosità.

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Eccoli lì, gli avventori di un bar qualsiasi della capitale spagnola. Chi siede al bancone, chi inserisce l’ennesima moneta in una slot machine, chi corre in bagno senza nemmeno ordinare un caffè. Si avverte uno sparo. In strada un uomo è a terra, e intorno a lui il nulla. Non c’è più nessuno nel caotico centro di Madrid.

Chi ha sparato? Un attacco terroristico? Eppure la televisione non ne parla. Perché hanno evacuato la zona così rapidamente? Una quarantena? Il terrorista, l’infetto, il mostro che faccia hanno?

El Bar

Elena (Blanca Suárez) boriosa e avvenente è lì per caso, non si sarebbe mai fermata in un posto così sciatto se non le si fosse scaricata la batteria dello smartphone. Nacho (Mario Casas) indossa ingombranti cuffie collegate ad un tablet, è un pubblicitario ma il suo barbuto aspetto hipster non lo aiuterà a promuovere la sua innocenza.  Amparo (Terele Pàvez) è la combattiva proprietaria, avvezza all’uso della voce grossa per tenere a bada l’umanità non adeguatamente allenata all’educazione. Sàtur (Secun de la Rosa) serve drink e propone tortillas senza sosta, da ben 15 anni. Trini (Carmen Machi) offre le spalle, ammaliata dalla luminescente macchina della fortuna. Aggiungete a questa amalgama di storie e volti, un feticista rappresentante di biancheria intima, un ex poliziotto che venera la sua pistola tanto da averla ancora con sé, e un senzatetto di nome Israel (Jaime Ordóñez) affezionato alla bottiglia e alle citazioni bibliche. E che l’incubo abbia inizio, la gabbia sia serrata e il gioco al massacro sia servito.

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Sconosciuti intrappolati in uno spazio ristretto. Una minaccia esterna che li vuole morti, anche se ne ignoriamo la ragione. La trama muove da un elemento chiaramente già visto. Anche a voi torna alla mente “Distretto 13” di John Carpenter? Ma “El Bar” è una pellicola totalmente “made by de la Iglesia”: si ciba di frenesia, promuove il disagio, alimenta la claustrofobia in un modo così veloce e conturbante da rendere il grottesco irresistibile.

Álex de la Iglesia agita la macchina da presa in un ridottissimo spazio da cui è possibile uscire solo immergendosi letteralmente nel liquame. Gli avventori del bar, miserabili e immorali, esplodono senza controllo in un vertiginoso turbine che ci travolge, ci solleva da terra e ci scaraventa nell’assurdo. In “El Bar” si stringono alleanze, le si tradiscono, ci si insulta, ci si accusa, ci si abbandona ad ammissioni inconfessabili, ci si unge d’olio per scendere nelle fogne, ci si inietta antidoti, che si sia infetti o meno.  

Álex de la Iglesia non offre nessuna verità. Difficilmente sapremo dare un senso a ciò che abbiamo visto accadere dentro a “El Bar”: un orrore che si fa scherno, una apocalisse che non prevede alcuna fine, un riso che sa disgustare. Álex de la Iglesia non prescrive facili conforti alle pene contemporanee, non suggerisce brillanti espedienti di sopravvivenza. È lui stesso a metterci sotto attacco. È lui il cecchino là fuori. Sta a noi districarci nel caos, sta a noi conservare un’inezia di umanità, anche nella fogna in cui galleggiamo. Eccessivo e dissidente il regista basco è una certezza. La certezza è che lo stato di quiete dello spettatore sarà sovvertito, almeno per le ore che seguiranno la visione. 

Voto Autore: [usr 3,5]

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Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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