Domino

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Al netto di tutti i suoi difetti, di cui ci importa poco, Domino di Brian De Palma dimostra, per l’ennesima volta, come il tocco di un autore possa emergere anche in condizioni di difficoltà evidente. Infatti, a causa della mediocre sceneggiatura di base e dei numerosi tagli subiti al montaggio, non sapremo mai cosa il regista volesse fare realmente con questa pellicola. Ma possiamo individuare almeno una sequenza interessante e giocare ipotizzando l’intenzione stilistica.

In primo luogo, l’ambientazione della vicenda in diverse località europee sotto l’egidia di Italia, Belgio, Olanda e Spagna esplicita una drammatica situazione finanziaria di partenza. Questo genere di organizzazione, dettata dalla necessità di raccogliere le risorse in diversi contenti ugualmente autonomi invece che accentrarne la gestione in un’unica realtà aziendale, è ormai molto rara nel cinema mainstream e non fa altro che confermare l’isolamento di De Palma nell’odierno sistema produttivo. Di conseguenza, risalta la povertà di mezzi dell’intera operazione, in particolare quando si tratta di girare scene di azione in spazi esterni però ricostruiti in studio. Tuttavia, l’autore fa di necessità virtù e stabilisce per questi momenti narrativi una dimensione scenografica consapevolmente retrò, di impronta classica, come se ci trovassimo su un set di Alfred Hitchcock.

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Queste scene sono ambientate quasi sempre di notte, perciò lo sfondo è scuro e poco riconoscibile. L’illuminazione è molto contrastata e il movimento è ridotto all’essenziale. Quando ambientate di giorno, il campo riprende solamente ciò che ci serve vedere, senza dominare lo spazio circostante come farebbe una grande produzione americana con i suoi spettacolari establishment shots. Così De Palma si affida a una regia effettivamente hitchcockiana, ritrovando il gusto della rappresentazione voyeuristica. L’accesso al dramma per lo spettatore, quindi, avviene attraverso rapide panoramiche miscelate a zoom in direzione delle finestre dietro le quali si incontrano i personaggi. Siamo invitati a partecipare alle conversazioni soltanto dopo aver accettato di essere intrusi, casualmente catapultati in una realtà che altrimenti rimarrebbe nascosta, quello della CIA e delle organizzazioni terroristiche.

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Esattamente come i luoghi in cui agiscono, anche i metodi di questi opposti schieramenti sembrano coincidere: la detenzione, il ricatto, la tortura. De Palma sembra volerci ricordare che non sempre il bianco e il nero sono del tutto separati. Il poliziotto danese Christian insegue l’assassino del suo collega su un tetto ma, dopo una lunga sospensione, cade rovinosamente con lui su un tappeto di pomodori che rappresenteranno per entrambi un mondo più grande con cui doversi scontrare. Lars, il collega di Christian, muore lasciando moglie malata e amante incinta, mostrando sicuramente una certa codardia ma anche un’incommensurabile umanità appena dietro la facciata dell’uniforme. Ogni cosa è ciò che sembra ma anche qualcos’altro. È pur vero che De Palma lo aveva già detto meglio e prima, però qui approfitta di un confuso intreccio thriller per aggiornare il discorso alla contemporaneità digitale con un film che diversamente da Redacted (2007) è alla portata di tutti.

Ancora nella scena dell’inseguimento sul tetto, cliché di un genere che ha i suoi insospettabili primordi nelle origini del cinema stesso, il regista si affida ai tempi della suspense hitchcockiana già a partire dalla scena precedente, quella in cui Christian dimentica la pistola sul tavolo perché distratto dalla donna con cui ha passato la notte. L’inquadratura è unica, distante e sopraelevata, in grado di osservare la situazione col distacco necessario per farci notate questo dettaglio e per usarlo, attraverso un lento zoom in direzione dell’arma, come elemento di attesa nei confronti della conseguente tragedia. Questi e altri piccoli momenti ci ricordano quanto è stato grande De Palma e quanto davvero ci manchi qualcuno in grado di svelarci l’ambiguità delle immagini e del mondo.

 

Voto Autore: [usr 2,5]

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Davide Pirovano
Davide Pirovano
Mi piacciono le arti visive contemporanee e mi piace pensarle in un’ottica unificatrice. Non so mai scegliere, ma prediligo le immagini e storie di Gaspar Noé, David Fincher, Yorgos Lanthimos e Xavier Dolan.
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