Tra i film con il maggior numero di candidature agli ultimi David di Donatello, Berlinguer – la grande ambizione è il quinto lungometraggio di Andrea Segre. Il film si concentra su un periodo determinante nella storia italiana e internazionale, attraversata da tensioni e grandi svolte. Le 15 nominations ai David si sono tradotte in soli due premi, ma molto rilevanti. Elio Germano ha ottenuto la sua quinta statuetta come Miglior Attore Protagonista, da sommare a quella come non Protagonista dello scorso anno per Palazzina Laf. L’altro premio ottenuto è stato quello al Montaggio per Jacopo Quadri, storico montatore di Mario Martone.
Berlinguer – la grande ambizione, trama e cast
Il film si apre con le immagini del colpo di Stato in Cile, nel quale viene assassinato Salvador Allende. La morte del primo presidente socialista cileno, con la complicità degli Stati Uniti, spinge a una riflessione le forze di sinistra in tutto il mondo. Pochi mesi dopo Enrico Berlinguer (Germano) segretario del PCI si trova in Bulgaria, dove sfugge anche a un attentato, subito a causa delle sue posizioni. Rientrato in Italia si impegna a dar vita a quello che verrà definito come “compromesso storico”. Si tratta della possibilità di pervenire a una alleanza tra le forze popolari italiane, principalmente il PCI e la Democrazia Cristiana. Intanto, Enrico conduce la sua vita di marito – la moglie Letizia è interpretata da Elena Radonicich – e di padre.
La scelta di Berlinguer scatena un dibattito anche all’interno del Partito Comunista Italiano. Servendosi di un’ampia documentazione, Segre rivela i discorsi interni alla segreteria del Partito. Sono presenti quindi all’interno del film alcuni tra i maggiorenti della forza politica: Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), Ugo Pecchioli (Paolo Calabresi). Assistiamo anche alle trattative per l’appoggio esterno del PCI al governo Andreotti (Paolo Pierobon) e agli incontri con Aldo Moro (Roberto Citran). Se da una parte il paese viene colpito dalla violenza di quegli anni, dall’altra l’ascesa del PCI sembra inarrestabile. Il film si conclude poco dopo la morte dello stesso Moro, che segnò in effetti anche la chiusura di una stagione politica italiana.
Berlinguer – la grande ambizione, la recensione
C’è una accuratezza storica di taglio quasi-documentaristico che attraversa l’opera, probabilmente legata alla formazione da documentarista di Segre. Nel raccontare Berlinguer il regista (anche sceneggiatore con Marco Pettenello) sceglie di ricorrere a questa soluzione, che in qualche modo limita il potenziale del film. Segre sembra non voler orientare in alcun modo il pubblico riguardo a un giudizio sul suo protagonista, lo fa dunque limitandosi ai fatti. I momenti in cui si concede una maggiore libertà sono quelli che il segretario del Partito Comunista Italiano passa in famiglia. È un biopic politico atipico quello a cui assistiamo, abituati a una tradizione importante di opere mordaci e spesso critiche verso i propri protagonisti. Non che la scelta di Segre sia un errore a priori ma forse finisce per affievolire il risultato complessivo che resta comunque molto positivo.
Perché Berlinguer – la grande ambizione è una prova cinematografica comunque matura, nella regia, nel montaggio e nelle interpretazioni. Svetta, ovviamente, Elio Germano che conferisce una profondità importante al suo personaggio. L’attore compie un lavoro eccelso nel riprendere la fisicità e il linguaggio del leader politico, ma senza annullarsi totalmente nell’interpretazione stessa. È in generale però tutto il cast a rappresentare uno dei grandi punti di forza del film. La puntualità delle interpretazioni è ben visibile nella capacità di farsi ricordare anche nello spazio, e nel tempo, di poche scene. Segre si confronta con un periodo che ancora oggi richiama l’interesse di molti registi e lo fa seguendo le proprie modalità. Risulta leggermente affrettata la chiusura dopo la morte di Moro. C’era lo spazio per una riflessione che il regista volontariamente decide di non seguire.
Il cinema italiano e gli anni ’70
Negli ultimi anni si è rinnovato l’interesse degli autori italiani attorno agli anni ’70. In questo senso, è inevitabile citare Marco Bellocchio. Il regista ha ripreso nel 2022 il soggetto del rapimento di Moro già trattato in Buongiorno, Notte con il bellissimo Esterno Notte. Nell’opera di Bellocchio il giudizio verso l’interezza della classe politica di quegli anni risulta più caustico, implacabile. Forse dettato anche da una differenza anagrafica e dalla volontà di Segre di presentare una figura in maniera differente. Anche in Bellocchio incontriamo, per poche scene, Berlinguer, che ci dà un’impressione molto diversa rispetto a quello di Segre. Che il rapimento Moro abbia rappresentato uno spartiacque non solo politico ma storico è evidente dal fatto che anche altri registi se ne siano interessati.
Anche ne Il Divo sulla figura di Andreotti di Paolo Sorrentino il rapimento e la morte di Moro rappresentano la chiave di volta della storia. Segre interrompe il suo racconto poco dopo, non si concede la libertà di indagare le reazioni di Berlinguer. Si limita a riprenderne il contesto familiare, sceglie quindi una strada differente da quella percorsa da altri. C’è un elemento che però raccorda i tre film citati: questo, quello di Bellocchio e Il Divo ed è la centralità del rapporto con la moglie. In tutti e tre i casi finisce per essere il controcanto reale della dimensione politica.