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Acasa – My home: la recensione del documentario vincitore al Trieste Film Festival

Miglior documentario allo scorso Trieste Film Festival, miglior fotografia nella stessa sezione al Sundance Film Festival del 2020, Acasa – Myhome è il debutto registico di Radu Ciorniciuc, ex-giornalista specializzato in cronache d’inchiesta, qui in veste di ospite dietro la macchina da presa, impegnato a riprendere la vita di una famiglia rom molto numerosa, madre, padre e una decina di figli, stanziata da circa vent’anni nel Delta di Bucarest, zona paludosa, poco oltre il perimetro definito della città, tutta sterpaglie, animali selvatici e pozze fluviali.

Acasa - Myhome

Sono gli Enache: costoro occupano una piccola baracca priva di acqua e di elettricità, costruita con materiali di risulta ed accessori recuperati qua e là o donati dalle comunità solidali della capitale: un involucro stretto, spesso freddo ed opprimente, non certo igienico, piazzato in una delle poche radure della zona, dove l’erba smette di essere alta e si intravedono segmenti di terreno; in questa piccola landa selvaggia la famiglia vive, pesca, si procura quel poco che riesce per rivenderlo negli incombenti palazzoni di vicina periferia, mentre i più piccoli giocano tra le acque e le canne secche del territorio, catturando gatti, piccioni e maiali selvatici: vivono liberi nel loro dominio, lontano dagli agi e dai compromessi della civiltà.

Spesso vengono multati perché danno alle fiamme la spazzatura accumulata aumentando il rischio di incendi locali ed altrettanto spesso nascondono i loro bambini in rifugi di fortuna totalmente immersi nel groviglio di sterpi che li circonda, per farli sfuggire agli assistenti sociali, i quali, periodicamente, li vanno a trovare con l’intento di allontanare i minori dai genitori ed offrire loro una sistemazione migliore. Il capofamiglia Gica rifiuta di abbandonare quella terra, che considera la propria casa: rivendica il diritto a restare poiché dei luoghi conosce, cura ed ha contribuito a migliorare ogni singolo angolo più di chiunque altro; potrebbe e dovrebbe diventarne una guida specializzata. Il problema reale si pone quando l’intera famiglia viene sfrattata dall’area poichè destinata, secondo il nuovo piano di recupero extraurbano, a divenire parco protetto: la casa-baracca viene demolita e gli Enache sono costretti a trasferirsi in alloggi temporanei e popolari all’interno della città.

Acasa - Myhome

Qui iniziano i conflitti: né genitori né figli sono abituati a quel tipo di vita; igiene, qualità del cibo, vestiti, strade caotiche e trafficate, educazione scolastica, lavoro, primi amori, razzismo e integrazione, sono tutti momenti difficili, alieni rispetto alle abitudini che il gruppo seguiva nella piccola baracca, e contrastanti se raffrontati ai principi con cui Gica, anche dispoticamente, dispone dei suoi figli, lui, convinto sostenitore della corruzione dei costumi insita in ogni metropoli, della falsità degli intenti di chi vi abita, dello sfruttamento barbaro della natura e dei propri simili perpetrato senza remore dai cittadini.

A still from Acasa, My Home by Radu Ciorniciuc, an official selection of the World Cinema Documentary Competition at the 2020 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute | photo by Radu Ciorniciu and Mircea Topoleanu. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or ‘Courtesy of Sundance Institute.’ Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

Tre anni vissuti insieme agli Enache hanno portato Ciorniciuc a realizzare un’opera impressiva, dal sapore primitivo e architettato insieme, di stampo documentaristico, in parte costruita, in parte no, sulla condizione di una minoranza, una famiglia esemplificativa della marginalità innata e scelta, dell’identità altra, di una diversità che, nonostante diritti e buone intenzioni, fatica ad inserirsi, farsi accettare e soprattutto sostenersi, restando priva di un’evoluzione positiva, che escluda da sé i limiti oggettivi, i rischi, gli errori e tutti i difetti tipici di questa condizione.

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C’è il patriarca che difende la natura della propria famiglia, un modo di stare al mondo brado e privo di sovrastrutture, ma anche tirannico e brutale; ci sono le burocrazie che ignorano, poi si vantano quando conviene, ed infine tornano ad ignorare; ci sono le nuove generazioni spaccate e confuse, da una parte pronte a prendere le distanze dal tipo di vita vissuta dai propri genitori, libera sì, ma estenuante e deficitaria per molti aspetti, dall’altra totalmente assenti alla nuova realtà che accoglie, pronti a disfarsene e a ritornare nell’unica casa che hanno con consapevolezza chiamato tale, anche se fatta di niente. Su questo bivio, al limitare della riflessione, laddove la discussione si apre in tutta la sua contraddittorietà si ferma la macchina da presa, che raggiunge il nucleo del problema, lo spacca e lo lascia a spargere fumo su un piatto d’argento.

A still from Acasa, My Home by Radu Ciorniciuc, an official selection of the World Cinema Documentary Competition at the 2020 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute | photo by Radu Ciorniciu and Mircea Topoleanu. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or ‘Courtesy of Sundance Institute.’ Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

Una prima parte dell’opera è ancorata al Delta di Bucarest, si perde tra le scorribande giocose dei bambini nell’erba arida, le pesche selvatiche per recuperare il cibo da mettere in tavola, le ore spese nella baracca, arrangiati su materassi, al freddo, al caldo, al vento, con sveglie impossibili e la prospettiva di un mondo circostante sostanzialmente vergine, sotto controllo, dopo vent’anni di reciproca conoscenza; la seconda parte è prettamente urbana, contiene il maldestro adattamento, la confusione, la fatica di vedere il bene tra le parole, le indicazioni e le nuove regole che vengono loro consegnate, la renitenza ad accettarle in quanto colpevoli di modificare l’indole di un’educazione.

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Non si può camminare liberi per le strade, non si può fare il bagno nelle fontane pubbliche nè pescarvi pesci, si devono leggere libri non usarli come combustibili per la stufa, si deve andare a scuola, pagare le bollette, gli affitti, rispettare i vicini, utilizzare cellulari per comunicare: un altro pianeta, ingombrante ed assertivo che in ogni suo respiro condiziona una colonia umana atipica. Nuovi doveri, per diritti sconosciuti: quella cosa chiamata Stato.

Gli Enache dal loro canto non sembrano temere nulla, specie i capostipiti, né multe, né ritorsioni, né conseguenze sociali, civili o penali, forti del fatto di aver dato alla luce e cresciuto tra mille difficoltà una squadra di figli: la fatica fisica e lo spaesamento fanno più danni su di loro che le normative. La telecamera li segue un passo indietro, presenza cui tutti i membri della famiglia sembrano abituati, come fosse una persona di casa, vista la lunga convivenza intercorsa tra loro ed il regista; le inquadrature registrano angoli, spalle, stralci e battute, improvvisate o concordate, in cui si mette a nudo a volte in modo razionale o a volte irruento, la specificità di una gente che chiede oltre al rispetto per se stessa, anche quello per la natura che li ha accolti.

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Così il regista scruta i suoi rom, negli interni, negli esterni, nelle reazioni legali ed in quelle illegali, nei moti di ira, negli eccessi, nelle bevute, nel dialogo con le istituzioni ed i rappresentanti dei servizi sociali, nella confusione che li attanaglia, negli errori che commettono pur pensando di agire in buona fede, nelle loro piccole violenze di autodichia domestica, nell’indisciplina condivisibile e non condivisibile che li governa e ne forgia l’umore. Le riprese li sorprendono, li incastonano, li squadrano in perimetri, posture e punti di vista che ne esaltano l’isolamento, e, ad inizio film, li incorniciano dall’alto, con panoramiche fotografiche realizzate da droni, ad evidenziare la dimensione geografica della situazione, più labirintica, radicale e selvaggia di come appare.

Gli Enache incarnano il mito del buon selvaggio che non ti aspetti, qualcosa di onesto e qualcosa di marcio, mentre la telecamera li insegue e li piroetta, cercando di sottolineare l’aspetto sociale di un dramma familiare, mantenendo la qualità grezza e studiatamente incompiuta del girato. Una storia che fa riflettere sulle problematicità insite nella ghettizzazione e nell’integrazione, parole di cui ci si riempie la bocca troppo facilmente, senza conoscere sul territorio l’impatto effettivo delle stesse: la realtà è più complessa, sempre, e la Romania, l’Unione Europea di cui fa parte, e molti altri stati membri, compreso il nostro, tanto ancora devono fare in questo campo; si può ben dire che la medesima vicenda, fuori da Bucarest, avrebbe potuto risolversi in modi naturalmente peggiori.

Acasa - My home

Non tutti i poveri sono cattivi, si dice nel film, così come non sempre avere tutto corrisponde ad essere felici: sicuramente non ogni luogo può dirsi indifferentemente casa, e di questo, socialmente e civilmente, bisognerebbe tenere adeguato conto.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

La famiglia rom degli Enache è sfrattata dalla sua baracca nel Delta di Bucarest dopo vent'anni di insediamento: padre, madre e una decina di figli si ritrovano nella città, dove stentano ad abituarsi a vivere. Dopo tre anni di convivenza con i protagonisti, un documentario firmato da un noto giornalista d'inchiesta rumeno, che mette in risalto limiti e contraddizioni dell'integrazione, ostinazione dispotica all'isolamento, manipolazione ed affezione verso l'ambiente naturale. Impressivo, architettato e primitivo insieme.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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