Il ritorno di un franchise perduto
A distanza di sette lunghi anni, il franchise horror targato Summit Entertainment/Universal Pictures/20th Century Fox cambia pelle sotto la produzione della Constantin Film – casa specializzata in cinema horror e in generale cinema indipendente – capace di rinnovare il modello cinematografico d’’appartenenza del franchise dopo la sua apparente scomparsa nel 2014 con Wrong Turn 6: Last Resort.
Tra gennaio e febbraio 2021 infatti la Constantin Film e la Saban Film distribuiscono in sala (seppur per un periodo molto breve) e subito dopo direttamente in home video il nuovo capitolo di Wrong Turn, il cui sottotitolo è questa volta decisamente più autorevole e per certi versi serioso, ossia La fondazione.
Al timone un nuovo regista, Mike P. Nelson, qui alla sua seconda prova dopo l’esordio assolutamente indipendente e particolarmente debitore nei confronti di The Walking Dead, The Domestics del 2018.
Se regista e attori/attrici del cast risultano grandi novità, il legame con i precedenti capitoli viene ristabilito saldamente dalla presenza di Alan McElroy, sceneggiatore del primo film del franchise Wrong Turn che torna a distanza di diciotto anni come autore del soggetto e ancora una volta della sceneggiatura di un nuovo capitolo che si pone curiosamente a metà strada tra reboot e sequel.
A differenza di molti altri franchise horror che non hanno trovato una modalità di rilettura adeguata, Wrong Turn: La fondazione si rivela particolarmente abile nel filtrare un chiarissimo omaggio al cinema di Wes Craven (Le colline hanno gli occhi; 1977), Jack Starrett (In corsa con il diavolo; 1975) e Robin Hardy (The Wicker Man; 1973) in chiave politica, raccontando parallelamente due lati dell’America: quella pro Trump molto spesso violenta e reazionaria e quella radicalmente (o morbosamente) ancorata al passato e alle radici della nazione, tanto da rifiutare il progresso, favorendo un isolamento e allentamento sempre più pericoloso e retrogrado dalla società.
È qui che nasce Wrong Turn: La fondazione.
Un tranquillo weekend di Trekking sui monti Appalachi – Redneck, Deliverance e The Village
Due linee temporali scorrono man mano che il film procede: quella di un’indagine privata e particolarmente pericolosa nel presente, e quella di una spedizione di trekking di un gruppo di giovani amici sui Monti Appalachi, altrettanto pericolosa se non propriamente fatale nel passato.
Anche questo nuovo capitolo come i precedenti ambienta la sua narrazione negli stessi scenari sconfinati, meravigliosi seppur inquietanti dei Monti Appalachi.
A differenza dei precedenti però questo nuovo Wrong Turn si interessa nel corso della prima parte introduttiva anche ai luoghi di provincia che il gruppo di amici si ritrova costretto ad attraversare prima di riuscire ad introdursi nel sentiero degli Appalachi.
Uno di questi luoghi è Harpers Ferry, una cittadina immersa nei boschi della Virginia Occidentale, in cui il gruppo pernotta per un paio di notti, un tempo tutto sommato breve che gli permette ugualmente di affrontare i pregiudizi e la violenza di alcuni rednecks del posto, perfettamente calati nello scenario attuale, con tanto di cappellini pro Trump e così via.
È interessante come Nelson e McElroy scelgano di affiancare due modelli di paura così differenti eppure tremendamente funzionali come il timore legato alla non appartenenza ad un determinato luogo ed il terrore scaturito dalla sensazione del sentirsi osservati pur trovandosi all’aperto, tra scenari potenzialmente senza fine eppure ombrosi e cupi.
L’operazione dunque è tanto politica quanto sociale e la scelta di McElroy è quella di diffondere una sensazione di disagio e paura costante rispetto a quei rednecks che nella prima parte del film si sono dimostrati assolutamente indisposti, violenti e reazionari di fronte all’arrivo degli stranieri, del “diverso” e in generale dell’attuale.
Ad Harpers Ferry si scontrano due Americhe, quella dei giovani dalla preparazione teorica, moderna e “social” e quella degli anziani, decisamente più pratica e lontana dalle conoscenze e competenze che sono tutto sommato tipiche delle nuove generazioni.
Un discorso questo che viene addirittura esplicitato in un momento di tensione e per certi versi divertimento all’interno di un diner notturno, nel quale il gruppo di giovani si scontra – soltanto verbalmente – con un gruppo di anziani e rednecks del luogo, capitanati dal sempre leggendario Mordecai (Tim De Zarn) di Quella casa nel bosco.
Molto presto questo conflitto presente/passato si sposta in un altro contesto seguendo ben altra direzione, dalla cittadina al fitto dei boschi, dai Rednecks rudi e aggressivi ma di fatto ragionevoli, ai membri violenti e dall’istinto e morale primordiale della Fondazione che popola il cuore oscuro degli Appalachi.
Il tema principale del film veicolato tra evidenti e divertenti citazioni – su tutte quella di The Village di M. Night Shyamalan, ma anche alla struttura narrativa di Deliverance di John Boorman – è il conflitto pressoché eterno tra società del progresso, caotica, in continuo movimento e ricca di impulsi ma anche di pericoli e multiculturalismo e società del passato, quella del ritorno alle radici, alla terra e all’isolamento rispetto al caos, in favore di un ordine più silenzioso, modesto e celato.
Wrong Turn: La fondazione chiaramente riflette sul tema in chiave horror, ma ancor prima di thriller psicologico, in cui la violenza e il male non appaiono restando ferocemente nel fuoricampo che agisce sull’inconscio e sui timori dello spettatore a tal punto da trasmettergli una sensazione di disagio crescente che non può che comunicargli una sempre più vicina esplosione ed esposizione al pericolo, questa volta senza più protezioni e limiti visivi.
Il film in questo si differenzia molto rispetto agli altri capitoli del franchise, in cui lo splatter era parte centrale e la tensione psicologica pressoché marginale.
Si potrebbe dire che nel film di Mike P. Nelson tutto si svolga nella modalità opposta: è molto più ciò che non si vede a comunicare disagio e panico rispetto invece a ciò che viene mostrato e lo splatter è relegato ad alcuni momenti – anche marginali – in cui il sangue è usato con grande parsimonia e senso di realtà, evitando dunque una qualsiasi forma di spettacolarizzazione che si sarebbe inevitabilmente creata all’interno di sequenze simili.
Era mia figlia – Il viaggio di un padre e il male che è dentro di noi
Come già anticipato il film segue due tracce narrative temporali differenti: la spedizione boschiva dei ragazzi nel passato e un’indagine privata e particolarmente pericolosa nel presente.
L’indagine del presente vede al centro un padre, Scott (Matthew Modine) che ha già superato la mezza età, reduce dal fallimento di un matrimonio con conseguente allontanamento dalla figlia.
Scott però è marito, nonché padre all’interno di un nuovo nucleo familiare che sembra non vedere di buon occhio i tentativi di quest’ultimo di riavvicinarsi alla giovane figlia avuta dal precedente matrimonio e partita per qualche giorno con il fidanzato e altri amici per una spedizione di trekking sui Monti Appalachi.
Così come il Bryan Mills (Liam Neeson) di Io vi troverò – titolo ormai cult dell’universo cinematografico action all’interno del quale padri dalle mille risorse si mettono alla ricerca di figlie/mogli rapite oppure semplicemente scomparse – anche lo Scott di Matthew Modine all’interno di Wrong Turn: La fondazione lascia casa e figli per partire alla ricerca della figlia scomparsa sui Monti Appalachi.
La sua è un’indagine pericolosa e violenta che però nulla teme, né gli aggressivi rednecks capitanati da Nate Roades/Mordecai (Tim De Zarn), né i violenti (e forse molto più) membri dell’oscura Fondazione che nel periodo della scomparsa hanno agito sia sulla giovane figlia di Scott, Jes (Charlotte Vega) che sui suoi amici.
Scott non è però un uomo d’azione, nemmeno un uomo indifeso.
È soltanto un padre alla ricerca di sua figlia che non si fermerà dinanzi a niente e nessuno pur di ritrovarla e portarla a casa, nemmeno se costretto ad affrontare un nuovo genere di male, quello che è insito in ognuno di noi e che può perfino portarci a fare del male alle persone a noi più care.
Il male che qualcuno o qualcosa può alimentare a tal punto da cancellare ogni barlume di umanità, a favore di uno spirito pericolosamente animale e primordiale che non può che rappresentare un temibile e oscuro punto di non ritorno.