Mike P. Nelson, al secolo Michael Paul Nelson, regista statunitense classe 1967, si appassiona fin da bambino al cinema horror, tanto che nel corso delle estati dell’infanzia realizza diversi cortometraggi a tema.
Sempre in giovane età dedica gran parte delle sue vacanze invernali alla rincorsa di un’altra grande passione, ossia la tecnica dello stop-motion.
In quel periodo così particolare e nevralgico della vita però viene negato a Mike l’accesso al cinema horror post 1970, per una semplice ragione: quello è ancora un modello cinematografico innocente e molto poco taboo o estremo.
Tutto cambia nel momento in cui Nelson raggiunge la maggiore età e si spalancano le porte del cinema inteso nel suo senso più totale e generale. Lo stesso momento in cui il regista statunitense entra in contatto con la realtà horror realmente proibita e vietata che tanto desiderava conoscere.
Quello è un cinema che si porterà dietro per anni, a partire dalla realizzazione di alcuni cortometraggi tra cui: Summer School, The retirement of Joe Corduroy, You want the night, The Goodbye e The Domestics.
Sarà proprio questo ultimo cortometraggio del 2015, The Domestics, a condurre Mike P. Nelson verso il lungometraggio. Tre anni dopo infatti esce nelle sale americane il lungometraggio d’esordio di Mike P. Nelson, The Domestics, che ha ottenuto più o meno globalmente un tiepido successo di pubblico e critica, probabilmente a causa di un rilascio limitato.
Nel 2021 esce il secondo lungometraggio di Mike P. Nelson (l’uscita italiana è al momento sconosciuta), Wrong Turn: The Foundation. I livelli produttivi sono alti e l’operazione è forte di un budget decisamente superiore rispetto al film precedente di Nelson.
La Lionsgate acquisisce i diritti di distribuzione home video e l’ottimo reboot di una saga horror di nicchia come quella di Wrong Turn (che conta 6 film) riprende vita sul grande schermo, passando da un cinema dichiaratamente di serie B, ad uno invece di serie A.
La sceneggiatura rappresenta l’unico inevitabile legame tra questo reboot e le sue radici, poiché ad occuparsene è proprio Alan McElroy, lo sceneggiatore di alcuni capitoli della saga originaria.
Niente però è rimasto lo stesso.
Wrong Turn: The Foundation si pone come un reboot decisamente più maturo, ricco di narrazione e in qualche modo interessato ad un aspetto sociale e politico che non faceva invece parte della saga cinematografica originale che conta ad oggi ben sei film. Qual è stato l’approccio in termini di regia ad un prodotto così distante dal materiale originale della saga Wrong Turn?
Mike P. Nelson
Non sono mai stato interessato a fare un altro Wrong Turn nello stile della serie originale. Rispetto al mio film tutto era già in sceneggiatura, a partire da questa intenzione. Lo sceneggiatore del Wrong Turn originale del 2003, Alan McElroy ha scritto questa volta un film davvero toccante e sorprendente. Dopo averlo letto la prima volta ricordo di non essere più riuscito a togliermelo dalla testa. I personaggi erano decisamente più credibili, i colpi di scena fantastici e assolutamente ingegnosi nel loro venir fuori dal nulla talvolta, così come gli antagonisti, davvero sorprendenti e distanti da ciò che si conosce e si è visto. Gran parte del mio film era profondamente radicato su queste basi. I due produttori infatti, Robert Kulzer e James Harris sono saliti a bordo del progetto proprio per questa direzione differente del film e in qualche modo audace rispetto al solito riavvio di una saga che si è persa nel tempo. Come regista è questa la squadra di cui vorrei far parte sempre.
C’è questa percezione più o meno globale di quella saga cinematografica come cinema di serie B. Un po’ per la sua vena splatter assolutamente esagerata e divertita, un po’ per la scarsa cura della costruzione dei personaggi e del plot. Tutto questo cambia all’interno del tuo film, in cui ogni aspetto è approfondito e gode di una vera e propria mitologia, a partire dai luoghi in cui i personaggi si muovono, i monti Appalachi. Un approccio quindi che sembra molto distante dal cinema comunemente definito di Serie B. C’è stata quindi una precisa volontà registica da parte tua o le intenzioni erano fin dal principio, a partire dalla produzione, mosse in questa direzione?
Mike P. Nelson
Ancora una volta, gran parte di ciò è dovuto alla sceneggiatura scritta da Alan. Ma volevo anche allontanarlo visivamente dai precedenti 6 film. Volevo che fosse un film capace di restare per conto suo, senza per forza poggiare su altre basi, come l’inizio di una nuova storia. C’erano ovviamente elementi familiari: trappole, giovani che corrono per salvarsi la vita, cattivi spaventosi nei boschi, ma quando raggiungi quel punto a metà del film tutto cambia. All’improvviso ti ritrovi in una situazione molto diversa. Ho avuto molte discussioni con il mio direttore della fotografia Nick Junkersfeld su come avremmo potuto far reggere questo film da solo. Ho lottato per girare il film nell’attuale regione degli Appalachi. Anche se si svolgono lì, nemmeno uno degli altri film di Wrong Turn è stato realmente girato lì. Per me gli Appalachi sono in tutto e per tutto un personaggio centrale del film e il fatto di essere riusciti ad arrivare in quei luoghi e di aver quindi girato il film lì è stato davvero sorprendente. Come ho detto nella risposta precedente, sia lo studio che lo sceneggiatore volevano andare maggiormente in profondità questa volta. Quindi fin dall’inizio c’è stata una spinta per allontanarlo dal tipico horror di serie B. Non tutto il pubblico ha apprezzato questo allontanamento dalla natura scioccante e estrema degli originali, ma per me fare più o meno lo stesso sembrava inutile. Lo si sente più e più volte dagli spettatori: “Non ci sono nuove idee, tutto ciò che otteniamo sono remake”. Ok, allora raccontiamo una storia nuova di zecca! Solo allora tutti si chiedono perché hai cambiato tutto… anche se vogliono qualcosa di fresco. Sono contento di aver avuto l’opportunità di fare un film con persone che avevano una storia precisa e il coraggio di fare qualcosa di diverso e di cogliere quindi di sorpresa le persone, che a loro piacesse o meno. L’horror può creare divisioni e penso che se non ci giochiamo di più, ci sentiamo troppo a nostro agio con ciò che abbiamo e perdiamo quella freschezza che il genere può offrire.
Il film ha poi alcuni momenti davvero memorabili, a partire dal tronco d’albero che rotola giù per il bosco, togliendo la vita con grande violenza e efferatezza ad uno dei ragazzi. Una scena fortemente coreografica e di grande tensione. In termini di regia, qual è l’approccio e come si lavora ad una scena come questa?
Mike P. Nelson
L’importante era avere un punto di vista forte. Non abbiamo avuto molto tempo per girare quella sequenza. E sicuramente non avevamo il budget. Ad un certo punto infatti la scena è stata quasi tagliata dalla sceneggiatura a causa del budget. Ma ho proposto un modo per farlo in cui ci saremmo affidati quasi del tutto al suono, alle reazioni dei personaggi e al loro punto di vista. Qualsiasi film gigantesco può sfruttare e avere a disposizione un sacco di soldi per una scena come quella, facendo rotolare un enorme rullo CGI giù da una collina.
La CGI non è speciale, non ha vita e sicuramente non è reale. I nostri attori e il nostro punto di vista invece lo sono. Questo è ciò su cui abbiamo scelto di investire, ciò che stai guardando deve farti credere che ci sia un tronco gigante che rotola giù da una collina. A quel punto crei la scena concentrandoti sulla prospettiva. Resti con i personaggi. Senti il tronco che si avvicina. Lo vedi uscire dal bosco attraverso lo schermo di un telefono. E poi è solo panico! Ma è tutto dal punto di vista dei nostri personaggi. Vedi il tronco solo 4 volte, credo, nell’intera sequenza. Ma lo senti sempre lì. Penso che la brutalità dei nostri personaggi che cadono dalla collina diventi molto più straziante e spaventosa di una sequenza con un falso registro audio montato più e più volte. E poi concludi il momento con un personaggio che viene letteralmente distrutto. Realizzare quella scena mi ha fatto capire quanto sia importante essere molto intenzionali su ciò che si vuole mostrare e non mostrare.
Sento che quando lavoro con un budget maggiore alla fine voglio utilizzare le stesse tecniche semplicemente perché possono essere molto più efficaci. Poi ci sono le conseguenze. Guardare i personaggi reagire alla morte del loro amico. Le conseguenze sono importanti tanto quanto la vera caccia al taglio della scena: dare tempo agli attori, parlare della scena e capire come avrebbero reagito era qualcosa di decisivo, poiché tutti reagiscono in modo diverso ad una situazione come questa e la differenziazione tra le reazioni è ciò che fa sembrare la scena più reale. Ciò che ti fa credere che quello che hai appena visto sia reale.
Il processo tenuto dalla fondazione nelle caverne rappresenta in qualche modo un momento d’incontro tra la vena politica che è propria del cinema horror fin dalle sue origini e qualcosa di molto più reale e attuale, probabilmente legato alla realtà che viviamo oggi. Una riflessione che condividi o le intenzioni erano altre? Puoi dirmi qualcosa di più sulla scena del processo?
Mike P. Nelson
Il processo era sicuramente lì per far sì che i nostri personaggi affrontassero le ripercussioni delle loro azioni. I nostri protagonisti non sono i classici bravi ragazzi perfettamente puliti. Hanno un po’ di oscurità in loro. È anche una scena per mostrarti che i nostri antagonisti sono più che semplici psicopatici dei boschi. Sono umani quanto i nostri giovani escursionisti, solo con un punto di vista molto estremo. Qualcuno potrebbe sostenere che un punto di vista come il loro, estremo e brutale possa addirittura avere più senso. I nostri antagonisti hanno metodi, morale e uno stile di vita che hanno sostenuto per centinaia di anni, niente e nessuno li cancellerà. Questo di per sé può essere un’idea spaventosa quando guardi alla situazione attuale nel mondo. Per quanto riguarda le riprese della scena, è stato molto difficile, drammaticamente impegnativo. C’erano così tante persone, così tante emozioni, i tunnel in cui abbiamo girato erano umidi, ammuffiti e sporchi, avevamo solo 3-5 minuti per girare alla volta perché dovevamo continuare a riaccendere le torce. La nostra intera installazione d’illuminazione non ha funzionato e abbiamo dovuto adattarci, e considera che avevamo a che fare con una delle scene di morte più brutali del film e tutto doveva concludersi nel modo giusto. Abbiamo girato in quel tunnel per 4 giorni, è stato estenuante.
Scott Shaw, il personaggio interpretato da Matthew Modine è qualcuno che improvvisamente si ribella ad una logica culturale e tradizionale rispettata da secoli, quella della consapevolezza da parte degli abitanti della cittadina delle violenze e quindi dell’esistenza nel profondo dei boschi della fondazione che ha rapito sua figlia. Un personaggio che smuove le acque e che rappresenta l’estraneo per eccellenza, colui che arriva da lontano e che nulla teme. Qual è stato il lavoro sul personaggio di Scott Shaw?
Mike P. Nelson
Il discordo principale su Scott era: dobbiamo farne un padre, non un eroe da cinema action e nemmeno un abile combattente. Scott non è un badass, è un padre. Un uomo qualsiasi che si ritrova a lottare pur di salvare sua figlia e sarà proprio questa lotta a fargli compiere azioni violente e apparentemente distanti dalla sua natura. Quella era la cosa più importante su cui sia io che Matthew eravamo davvero irremovibili.
C’è poi quello che io ritengo essere il momento cinematografico più forte e vivido del tuo film, ossia la fuga di Jen e Scott Shaw attraverso la galleria buia dei sopravvissuti mutilati e cannibali. Un vero e proprio girone Dantesco che in modo simile Cormac McCarthy inseriva all’interno di The Road. Un vero e proprio inferno nelle profondità della terra e dei boschi. Quelle che si muovono in quel corridoio sono sentinelle mutilate incredibilmente inquietanti e spaventose, private di bulbi oculari o arti che continuano a vagare e sopravvivere nell’oscurità, cibandosi della loro stessa carne. Puoi dirmi qualcosa rispetto a questa scena?
Mike P. Nelson
È stato disgustoso. Abbiamo dovuto girare molto velocemente quella scena intorno alle 2 del mattino. Non avevamo nemmeno abbastanza persone all’interno della caverna ed era così importante creare i sentimenti che hai descritto nella tua domanda, una discesa all’inferno. Una cosa che mi ha davvero colpito è stata la motivazione di Alan McElroy per quella scena: per la Fondazione, le persone che marciscono nella grotta, divorandosi a vicenda sono “noi”. Siamo corpi ciechi e senza voce che si cannibalizzano a vicenda. È così che la Fondazione vede le persone sotto la montagna.
Ho trovato poi molto interessante l’arco narrativo e quindi il lavoro di trasformazione fisica e psicologica sul personaggio di Jen Shaw. Partendo dalla violenza che prima le è estranea e poi sempre più vicina, fino al gran finale sui titoli di testa. Dal punto di vista registico sembra esserci quindi una grande cura rispetto alla messa in scena di quella violenza appartenente a Jen, che è sì efferata, ma mai estrema o gratuita come invece accadeva nei film della saga originale. Qual è stato l’approccio alla messa in scena quasi action e assolutamente brutale e coreografica della violenza di Wrong Turn: The Foundation?
Mike P. Nelson
Doveva essere diversa, grafica ma anche fondata. Non volevo che le braccia venissero strappate gratuitamente ai personaggi o che delle mannaie tagliassero la teste. Ogni tipo di violenza è lì per far avanzare la storia e dirci qualcosa sui personaggi. Un momento che amo così tanto è quando Jen accoltella a morte Hobbs quando lei e Scott stanno scappando dalla montagna. Tutto quello che fa è pugnalare, pugnalare, pugnalare, pugnalare con rabbia appassionata. Non fa niente di stilizzato. Diventa semplicemente primordiale. È la rivelazione di quanto sia primordiale quando tira fuori la lama dalla testa di Hobb che ora è crollata come una zucca, che ci rendiamo conto degli estremi a cui andrà incontro. Adoro giocare con le conseguenze. È qualcosa che rivela una verità nascosta. Soprattutto con la violenza, trovo che possa essere molto efficace. Devi dare la merce e mostrare le cose, ma mi piace lasciare che molti aspetti e sensazioni si manifestino inconsciamente nelle riflessioni del pubblico che comincia dunque a farsi un’idea delle cose, ed è lì che poi io mi diverto a mostrare come siano effettivamente. Essendo io stesso un fan del genere, adoro quando i film sono capaci di farlo, di scuotermi rispetto a qualcosa che potevo aver previsto e immaginato. Il lavoro poi sulla messa in scena degli alti e dei bassi della violenza cinematografica tiene il pubblico in punta di piedi, o come si dice, incollato alla poltrona.
Quali sono state le tue influenze cinematografiche? Io per esempio guardando il film ho pensato molto a The Village di M. Night Shyamalan e The Wicker Man di Robin Hardy.
Mike P. Nelson
Sì. Nel film c’è sicuramente qualcosa di The Wicker Man di Hardy, ma anche qualcosa di film come Race with the Devil, Deliverance e Hills Have Eyes che sono decisamente capisaldi del genere e metri di paragone che ho considerato girando Wrong Turn: The Foundation. Ma anche film come Saving Private Ryan, Indiana Jones e The Temple of Doom e The Twilight Zone. Onestamente, dopo aver letto la sceneggiatura ho sentito che questo film avrebbe potuto essere un episodio dello show di Rod Serling. Come molti di quegli episodi, il mio film è una strana e orrorifica fiaba sociale, con colpi di scena ripetuti che osserva al microscopio l’umanità, svelando i caratteri più nascosti, inconsci e oscuri.
Un reboot realmente solido, maturo e divertente per quanto spaventoso come questo non si vedeva da diversi anni all’interno del cinema horror. C’è l’intenzione di proseguire e ampliare la mitologia di questo film oppure ancora no?
Intenzione? Sì. Succederà? Spero proprio di sì…