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Wolf – la recensione del film con George MacKay

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Nel settembre del 2021 viene presentato in anteprima al Toronto International Film Festival Wolf, un caso filmico curioso che tratta il tema della disforia di specie poggiando sull’impianto narrativo del dramma psicologico. Mente ideatrice – sia per la fase di scrittura che per quella registica – alla base della realizzazione Nathalie Biancheri, già dietro la macchina da presa nel 2019 per il drammatico Nocturnal. Il film, una coproduzione tra Polonia e Irlanda, dura poco più di un’ora e mezza (98’) ed è stato distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi lo scorso dicembre, ad opera della ben nota Focus Features.

Wolf

La trama del film

Il giovane e taciturno Jacob (George MacKay) soffre di disforia di specie, una condizione per cui non concepisce la propria identità come umana ma sente di rispecchiarsi in un’entità animale. Nello specifico, la sua disforia di specie lo porta a considerarsi un lupo (di qui il titolo del film stesso, Wolf). Per trovare un rimedio a questa falsata percezione del sé, i genitori scelgono di indirizzarlo verso un istituto psichiatrico che lavora esclusivamente con ragazzi colpiti dalla stessa condizione di Jacob. In questo modo, col passare dei giorni, il ragazzo ha modo di fare la conoscenza dei suoi compagni di istituto; tra questi l’esuberante Rufus, che si identifica in un pastore tedesco, la giovane Judith, certa di essere un pappagallo, e la scettica Annalisa, che visualizza la sua persona come quella di un panda.

Con lo scorrere del tempo Jacob tenta di assecondare le pratiche e i ritmi dell’istituto, ma l’urgenza della sua perplessità si insinua in modo sempre più pressante dentro di lui. Ulteriori dubbi nel giovane sono scatenati dai metodi violenti e non ortodossi cui ricorre il dottor Mann (Patty Considine), violento e brutale medico a capo della struttura. Nel corso delle notti Jacob avrà anche modo di conoscere un’altra delle enigmatiche figure che abitano l’istituto, quella della ragazza (Lily-Rose Depp) che a suo dire si identifica con un felino. Tra pazienti che vanno e che tornano alla clinica, i metodi dei dottori si faranno sempre più discutibili, portando Jacob ad uno stato di malessere psico-fisico in cui la più dirompente delle ribellioni appare essere l’unica via d’uscita.

Wolf – un protagonista atipico abita una regia tanto essenziale quanto efficace

Il film nella sua interezza punta molto sulle potenzialità interpretative del suo attore protagonista, un largamente meritevole George MacKay nei panni di Jacob. Più di quanto accada in altri film, Wolf poggia ampiamente sulla resa psichica del suo personaggio, anche in ragione della sua natura di dramma psicologico. Dal canto suo, l’interprete non tradisce la fiducia che l’opera per sua natura gli concede. Con questa performance, l’attore lascia momentaneamente da parte l’ascendente sperimentalistico e pseudo-action del suo precedente lavoro nel già iconico 1917 per tornare ad una matrice deliberatamente grezza – nella più positiva delle accezioni possibili – ma, ciononostante, curiosamente sofisticata a livello di minuzia attoriale. In questo, lampante sembra essere il ritorno alla pasta pseudo-primitivista del suo lavoro nel centratissimo Captain Fantastic, dove recita al fianco di un Viggo Mortensen che fa scuola.

In Wolf l’interpretazione di MacKay si muove nel segno di una corporalità minuziosa, studiata, unita ad una quasi totale assenza di parlato. Anziché per mezzo di espressioni monologiche o dialogiche, l’attore (e di conseguenza il personaggio) riversa il proprio quid esistenziale sullo schermo quasi esclusivamente per mezzo di un uso meticoloso dell’elemento corporeo. Tale attenzione risulta marcatamente evidente nei momenti in cui il personaggio di Jacob si concede al suo innato ascendente animale. Tuttavia l’uso della fisicità, per quanto più sussurrato e meno immediato, appare sostanziale e altrettanto fondamentale nelle fasi in cui il protagonista si presenta nella sua accezione più umana.

Ulteriore enfasi pare essere posta sulla gestualità del protagonista se si tiene in considerazione la stasi che permea il contesto in cui agisce. Quello dell’istituto psichiatrico in Wolf è un ambiente marcatamente quieto, un cronotopo immobile e sempiterno per sua natura. Nell’assertiva e totalizzante paralisi che colpisce l’ambientazione spazio-temporale, ogni movimento del protagonista – gesto manifesto ma anche mimesi facciale, espressiva – per quanto impercettibile, appare immediatamente ben evidente. In questo modo ogni suo movimento viene investito di un’importanza tale da ottenere una notevole risonanza a livello percettivo nello sguardo spettatoriale.

Wolf

In questo, il lavoro effettuato sul contrasto tra silenzi e movimento è rinvigorito dal sapiente gioco registico-autoriale che Biancheri mette in atto. Sia in sede di scrittura che poi al montaggio il modus operandi sembra collocarsi sulla traccia dell’essenzialità. La pulizia fa da patrona in una dinamica quasi minimalista che non lascia alcuno spazio al superfluo. Come risulta ben evidente sin dall’inizio del film, tutto ciò che compare sullo schermo è funzionale alla pellicola stessa, mai in surplus o in funzione di mera cornice. Qualsiasi elemento non risulti strettamente necessario viene escluso, e al contempo quanto emerge è strettamente imprescindibile, che sia a livello prettamente narrativo o sul piano della costruzione dell’atmosfera.

L’acutezza nell’operazione di selezione delle scene torna anche nella modalità registica. Quella di Wolf non si dimostra una regia virtuosistica né tanto meno prossima a sperimentalismi, ma non per questo meno intelligente. Espressione manifesta dell’arguzia sistematicamente presente dietro la macchina da presa è l’attenzione per il background. A più riprese nel corso del lungometraggio, infatti, la regia costruisce le scene a partire da un impianto duplice: un primo piano importante e tendenzialmente più catalizzante, che porta avanti l’intreccio narrativo, avvalorato da un secondo piano spesso out of focus particolarmente straniante, capace di costruire un’atmosfera densa di significato lavorando sulle percezioni passive del pubblico.

La coscienza come scarto tra uomo e animale – la scrittura in Wolf

Tra i molteplici meriti di un film del calibro di Wolf si annovera la capacità di portare sulla scena un parterre di personaggi che vanno a comporre un campionario umano eccentrico ma deliberatamente non divertito (a differenza di quanto accadeva, ad esempio, in It’s a kind of a funny story, che si delinea a partire da premesse non dissimili da quelle della pellicola in questione). Questo, come molti altri dei lodevoli orpelli autoriali di cui è punteggiato il lungometraggio, è reso possibile da una qualità di scrittura peculiare e, nel suo piccolo, di certo spessore. Indubbiamente nel corso della sua interezza il film si macchia di qualche ingenuità autoriale (su tutte, spiccano il finale non originalissimo e francamente prevedibile come anche l’antagonista monolitico e nient’affatto tridimensionale, vertiginosamente prossimo al cliché). Ingenuità che però, fortunatamente, non inficiano troppo sulla pellicola presa nella sua totalità.

Appare lampante che, nella sua apparente semplicità, il film poggi su un quesito che ha animato per secoli la teoria filosofica, ossia la differenza tra animo umano e animale. A lungo la filosofia ha tentato di tracciare il confine tra uomo e animale, cercando di comprendere da cosa tale linea di demarcazione fosse costituita. Nella maggior parte dei casi, la risposta si è ritrovata nel concetto di coscienza; ed è proprio a partire da questo che Wolf muove le sue derive concettuali. C’è differenza tra il Jacob uomo e il Jacob lupo? E, nel caso in cui ce ne fosse, lo scarto è determinato dall’elemento razionale, cosciente? Infinite sono le implicazioni teoriche che seguono a tali premesse, e intelligentemente il lungometraggio sceglie di non dissimulare un’autorità tale da arrogarsi il diritto di fornire allo spettatore una risposta. Piuttosto, più efficacemente, lo pone di fronte all’interrogativo incoraggiando la riflessione.

Sagacemente, la scrittura sembra rifarsi all’illustre precedente del secondo Lanthimos, quello di stampo più internazionale e definito (in particolare il riferimento è a The lobster e Il sacrificio del cervo sacro). Il debito nei confronti del regista è manifesto, sia in quanto a toni – atmosfere angosciose, cupe e soffocanti – e temi – il leitmotiv dell’elemento animalesco – che in quanto ad estetica e fotografia (il persistente pallore, la sistematica desaturazione degli ambienti). Altrettanto acutamente, la scrittura del film sceglie di innestare il millenario e complesso quesito relativo alla coscienza su un impianto coinvolgente, quello del dramma psicologico, rifuggendo qualsiasi rischio di apparire come una pretenziosa e mera riflessione teorica fine a se stessa. In questo senso la concettualizzazione risulta fortemente aiutata da una costruzione del tutto singolare delle atmosfere, determinate non solo da scrittura e regia ma anche da una colonna sonora tanto precisa e puntuale quanto strettamente necessaria.

Wolf

In definitiva, l’opera seconda di Biancheri nell’ambito del lungometraggio prettamente narrativo si dimostra intelligente e curata. Il film non si interfaccia allo spettatore con le pretese di risultare un rivoluzionario capolavoro (cosa che in effetti non è, anche a causa di alcuni cliché narrativi), ma si presenta in modo onesto, nel suo elegante minimalismo. La performance del protagonista e le atmosfere insite del genere comportano un coinvolgimento emotivo che induce alla riflessione, il che è indubbiamente molto più di quanti film ad oggi possano affermare di riuscire a fare.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

In Wolf una magistrale interpretazione di George MacKay si unisce alla maestria autoriale e registica di Nathalie Biancheri, al suo secondo fictional movie. Poggiando su un impianto drammatico di stampo psicologico, il film investiga per mezzo di uno stile minimal e essenziale la psiche del protagonista, facendo riferimento a millenari quesiti filosofici tanto quanto ad esempi di grande cinema contemporaneo.
Eleonora Noto
Eleonora Noto
Laureata in DAMS, sono appassionata di tutte le arti ma del cinema in particolare. Mi piace giocare con le parole e studiare le sceneggiature, ogni tanto provo a scriverle. Impazzisco per le produzioni hollywoodiane di qualsiasi decennio, ma amo anche un buon thriller o il cinema d’autore.

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