Wet season – Trama
Ling (Yeo Yann Yann) è originaria della Malesia ma vive a Singapore dove insegna cinese ad un manipolo di alunni poco convinti, perché il mandarino è una lingua fuori tempo massimo e su di essa non scommette ormai più nessuno. Da otto anni prova ad avere un figlio sottoponendosi a faticose cure ormonali e di fecondazione assistita, senza successo: questo ha allontanato suo marito in modo doloroso e irrimediabile.
L’uomo, infatti, è distante, scortese, affoga se stesso nel lavoro e in un’altra relazione, lasciando la consorte spesso sola a far da balia al suocero, ridotto all’immobilità da un ritardo fisico e mentale. La quotidianità silenziosa, meccanica, anonima e tristemente spenta della donna, si anima quando uno dei suoi alunni (Koh Jia Ler) si entusiasma per il corso di recupero di cinese che lei ha organizzato con gli studenti meno brillanti.
Il rapporto tra i due diventa sempre più confidenziale: lei lo riaccompagna a casa, lo segue nei tornei sportivi di cui è appassionato, lo porta a casa per permettergli di finire gli esercizi, gli offre merende, compagnia ed il calore familiare che il ragazzo non ha vivendo praticamente da solo, fin quando il giovane non dimostra di desiderarla. Questa sterzata di vitalità, atto di ribellione e rivoluzione insieme, segna il passaggio all’età adulta di un piccolo uomo perdutamente innamorato e il riappropriarsi di un’ identità libera, consapevole e mai più rassegnata, per una nuova giovane donna.
Wet season – Recensione
Sullo sfondo della Wet Season, la stagione delle grandi piogge e dei venti monsonici, periodo dell’anno sospeso instabile scivoloso e transitorio per definizione, il regista Anthony Chen, originario di Singapore, talentuoso nome fattosi notare per grazia e sensibilità già con il suo debutto Ilo Ilo (2013), vincitore della Camera D’Or al Festival di Cannes, in questa sua seconda prova dipinge un ritratto femminile dolente, intimo e metropolitano, fatto di distanze, intersezioni impreviste, sguardi ostacolati e skyline muti.
Wet season, presentato al Toronto Film Festival del 2019, vincitore del premio alla miglior sceneggiatura al Torino Film Festival dello stesso anno, possiede la consapevolezza vivida di una situazione personale realmente attraversata da Chen e la distanza lucida che consente di raccontare la storia.
Sulla scia di un boom economico micidiale ed alienante, la protagonista Ling è cassa di risonanza di un’umanità trascurata, colpita negli affetti e nello spirito, bypassata per mancanza di zelo economico ed appeal sociale, che sembra non trovare nè pace nè spazio pertinenti alla propria integrità e quando inciampa in un sentimento puro, spesso, si colloca fuori dal coro, ad un passo dal ‘disdicevole’, costretta ad altro isolamento, oltre all’emarginazione che sottopelle subisce quotidianamente.
Ling crede nel contatto umano, ricerca la vicinanza delle epidermidi anche quando sembra agire in direzione opposta: si barcamena infatti tra iniezioni sulla pancia per farsi crescere la vita addosso, operazioni di fecondazione-ovuli affrontate in solitaria, pannoloni geriatrici da pulire nei minimi dettagli, imboccamenti amorevoli di cene silenziosissime, nasi sanguinanti da ghiacciare subito, carrozzerie tamponate in incidenti stradali causati da sobbalzi emotivi, mani che sfuggono alla passione di un intreccio, poi tornano, poi si allontanano, poi si arrendono, in un balletto dissimulato e sensuale dalla vitalità struggente e malinconica, labbra e baci da toccare per ricordare a se stessa com’era e com’è ancora l’amore.
Ling è vicina alle cose, mentre il suo tempo, la sua età, il suo ambiente, non lo sono, lasciano correre e scorrere tutto a distanza; solo un adolescente ancora sognante e sperante, può avere la stessa lunghezza d’onda della donna; nessun altro. Lei vorrebbe darsi un senso, ma non riesce a trovare la strada, non sa come lasciarsi andare pur volendolo fortemente, avverte il peso di un deficit umano all’interno di una vita profondamente incompleta, così come la sua generazione di passaggio soffre, imbrigliata tra il retaggio di un film cappa e spada della migliore tradizione cinese dato in tv e un cellulare che sforna foto e segreti intimi senza provare vergogna.
Lo studente innamorato è pedina perfetta, classico motore scatenante, l’antonomasia del controcorrente, un bastian contrario, diviso tra il mito di Jackie Chan e i gadget di Kung Fu Panda, sedotto in parte dall’ arte marziale tradizionale e dall’amore cavalleresco in parte dall’arte commerciale, dal feticcio di una Coca Cola o dal dolore convenzionale/convenzionato della prima rottura amorosa che deve essere memorabile.
Lui per lei è l’inedito amante, il figlio non trovato, il marito perduto; lei per lui, è una cotta viscerale tipica di quell’età, nonchè un transfer materno di ovvia evidenza. Attorno a loro sagome umane galleggianti nell’apatico tram tram di apparenze, moderne e pettegole insieme, iperorganizzate ed incivili, un po’ inglesi quando si deve dimostrare di saper parlare bene, un po’ cinesi quando si vuole nascondere altro e dismettere un tono.
Wet season lascia che s’incontrino, si osservino, si compenetrino e si aiutino a vicenda l’età dei primi bilanci femminili e la giovinezza sfrontata, ingenua ed esagitata, ancora intatta; due solitudini microcosmiche più vicine di quanto si possa immaginare, due razze rare e non addomesticate, due domande per fortuna ancora in cerca di risposte, due luci non rassegnate al bigio circondario, che puntano senza dirselo mai veramente oltre le coltri di nuvole e grattacieli della città, al di là delle piogge senza senso, senza inizio chiaro nè fine certa che alluvionano e piangono le terre di questa latitudine, e finiscono sui visi, sulle spalle sui contorni di tutte le anime in debito di affetto che le popolano.
Principessa spettatrice di Wet season è Singapore, proiettata nel futuro, capitale dell’omonimo stato in frenetica, impermeabile espansione, dove la trascurabilità dell’individuo è all’ordine del giorno ed il domani rincorso ed architettato nei minimi dettagli non ha spazio per storture, impasse, cedimenti, nè soprattutto tempo per la memoria.
Qui Ling è pesce fuor d’acqua, bersaglio facile, con la sua bellezza senza tempo, la sua materia di studio snobbata dai giovani ma anche dai colleghi d’istituto perchè non più proficua, la sua pazienza gratuita verso la composta arroganza che le viene riservata, la sua cura e la sua sopportazione domestiche di cui è esempio affaticato non più ricompreso nell’educazione delle nuove generazioni, il suo pudore femminile e materno che sfiora lo scandalo, anacronistico rispetto ad una società che di figli ne fa sempre meno, la sua attenzione al diverso e alla difficoltà altrui fuori dal comune gravitare quotidiano.
Istantanea di un essere umano come sembrano non esserci più, nè, più feroce ammetterlo, esserci mai stati, Ling non è in grado di sapere tutto, ma è disposta a cambiare per i propri bisogni e non per calcolo, testimone vivente del fallimento di una mentalità vincente solo in apparenza che autofagocita le proprie risorse, le schiavizza, le spersonalizza, le rende scontate, le dimentica, come dimentica se stessa, annegandosi negli acquazzoni estivi della “Stagione delle piogge”.
Wet season è un slice of life determinante, che dal volto femminile passa ad un disagio umano, poi ad un limite generazionale, poi ad una contraddizione urbana, infine ad un corto circuito vizioso dei tempi storici. Non c’è ombra di voyeurismo nel sentimento che nasce tra l’insegnante e lo studente, nè pruriti di compiacimento, anzi, ogni passaggio ha i contorni delineati da carta vetrata, è scarno, scabro, impacciato, scomodo, relegato a svolgersi in ascensori, corridoi affollati, stanzette da quattordicenne, interni di automobili o di autobus.
La tenerezza è vissuta a metà, a volte asettica, a volte implosa, in una compressione di non detti, non fatti, non toccati che collocano altrove i singoli gesti ed i rispettivi autori.
Wet season delinea la metamorfosi di due solitudini che si sfiorano per sopravvivere, nei tempi dilatati ed interdetti della stagione delle piogge, quando capita che cadano gocce dal cielo e non ci si faccia più neanche caso, perché a niente si fa più caso.
Luce livida che si illumina seriamente solo nella serenità dei cieli finale, grigio di mura altissime, vetri, classi e case semideserte, Wet season conta pochi momenti di colore acceso, regalati ai dettagli dello studente, alle sue passioni; i movimenti di macchina sono lenti essenziali e significativi, riescono a cogliere e a costruire lo sbalordimento e la rivelazione dell’attesa nel loro succedersi, amplificandone la proiezione per la storia e per lo spettatore.
Finale fin troppo architettabile, ma attraversato sempre in punta di piedi, senza la fanfara della narrazione occidentale, con i monsoni acquatici destabilizzanti definitivamente alle spalle.
Wet season – Cast
Bellissima la protagonista dai tratti magnetici e gli occhi felini, parlante nei silenzi e nelle pose interdette, drammaticamente insistite, musa di un focolare intimo e privato, assolutamente prezioso, raro e commovente, stanco di essere solo e tremendamente dignitoso.
Cerbiatto vivace il giovane studente dagli occhi accesi e le membra tese e nervose, fumetto di una nuova felicità che è pronto a ghermire: una discrepanza di anni perfettamente resa e perfettamente in equilibrio, per una coppa credibilissima, maldestra, dolce e ferita.
L’abbraccio finale sotto la pioggia rigenera e spiazza per tenerezza e coraggio: un’oasi di umanità nel cemento programmatico della città fuoriclasse. Wet Season ha la grazia delle prime volte, la precisione tematica delle seconde e l’istinto, a volte storpiante a volte salvifico, di provare a gettare un’ancora analogica tra passato, presente e futuro.