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Un valzer tra gli scaffali

Il microcosmo sociale archetipico viene ricreato tra gli scaffali di un ipermercato tedesco, nelle periferie dell’ ex- Germania dell’Est, in quella che fu al tempo una ditta di trasporti, rilevata dopo la riunificazione da una multinazionale dell’ingrosso.

In questa specie di santuario che fonde austerity e consumismo, un passato ed un presente di cui lo stato tedesco è ancora colmo, il regista Thomas Stuber ambienta la sua opera seconda, adattandola da un racconto di Clemens Meyer, autore alla cui opera aveva già dato forma cinematografica con il suo esordio A heavy heart nel 2015.

Un valzer tra gli scaffali

Dunque la scelta ricade su un hangar caldo e dispersivo al contempo, che dà e toglie aria, unisce e distanzia, accoglie ed isola, nido geometrico ed operoso che abita il giorno e parte della notte, in cui viene ricostruita la dinamica di una piccola comunità umana, unita insieme molte ore al giorno, per tutto il corso dell’anno.

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Reparti, responsabili e regole: ogni commesso ha la propria funzione, le azioni si ripetono costanti, così come le giornate, l’ordine nei corridoi, le gerarchie tra colleghi; tenera serpeggia l’umanità in tralice che si fa forza e cresce insieme in questo inedito alveare domestico ed alienante fatto di pallet, provviste, bottiglie, scatoloni ed individui nascosti dietro camicioni turchini.

Tra loro arriva Chirstian (Franz Rogowski), taciturno, riservatissimo ragazzo, dagli occhi di luna e lineamenti irrisolti, un passato burrascoso e lontano, destinato ad essere il nuovo aiutante di Bruno (Peter Kurth) nel reparto bibite. Qui il giovane viene man mano educato alla tecnica, ai segreti, alla manualità di chi lavora nel settore, informazioni che possono sembrare elementari ma che vengono raccontate, illustrate, fatte emergere con una grazia ed un’attenzione colme di amore per ciò che va oltre il gesto meccanico.

Si disvelano mondi ed umori di un sottobosco quasi perennemente al lavoro, destinatario di distratte attenzioni da parte di chi vuole solo riempire il carrello, un piccolo popolo che fa dell’ipermercato la propria seconda casa, dei colleghi una seconda famiglia, di una necessità umile o banale la propria virtù.

Un valzer tra gli scaffali

Così scopriamo l’importanza del muletto, macchinario che necessita accorta competenza nella sua guida, nonché patente apposita, e che permette di sollevare, spostare, incastrare e tirare fuori un considerevole numero di scatoloni e casse di prodotti tutti insieme. Una sorta di bacchetta d’orchestra con cui dirigere e suggellare ogni spostamento simmetrico all’interno del magazzino perfetto.

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E mentre Christian fa pratica ed impara un mestiere, oltre ad entrare lentamente in confidenza con il resto dell’equipe, la comunità dell’ipermercato lo legge, nonostante il suo silenzio, riconoscendone ogni mossa, prevenendone paure, indovinandone pensieri, persino trascorsi, come fossimo davanti ad una lenta, inesorabile, programmatica adozione.

Tra gli interessi più persistenti di Christian vi è l’attrazione fulminante per una collega addetta al reparto dolciumi, Marion (Sandra Huller), bionda, occhi azzurri, spigliata, sorridente, con un marito problematico. Tra i due il filo è teso e magnetico fin dall’inizio: mantenerlo intatto non sarà cosa semplice tra attese, cambi di atteggiamento, timori, mancanze, sensi di colpa e sbandamenti che odorano di pericolo.

Il sorriso a certe latitudini è una luce rara e preziosa, più preziosa del normale: così ai margini di nebbiose statali, tra campagne autostradali, a ridosso di infiniti parcheggi, sorgono questi scatoloni di umanità, iperorganizzati, popolati allo sfinimento nelle ore diurne, semivuoti nella notte, rifugi di passaggio per camionisti e pendolari, distrazione ciclica di famiglie più o meno numerose, oasi per viaggiatori, tana prediletta di grandi compratori.

Sono centri commerciali all’ingrosso che raccolgono ed intrecciano tempo, denaro e persone, in cui lavorano spesso sciami di invisibili in prova o sotto vari tipi di contratto, per sempre o per un poco, uniformati dal loro camice divisa: costoro, incorniciati dalla loro strana normalità guidano, puliscono, aggiustano, rimediano, dispongono, preparano, allestiscono, riordinano, la vita prima e la vita dopo il passaggio del cliente.

 Un valzer gli scaffali

Stuber ne coglie la profonda umanità, la ricostruisce con minuzia elegante, lento dosaggio dei tempi, dedizione ostinata ed intelligente, ricamando tra gli scaffali del palcoscenico prescelto una storia sentimentale che ondeggia tra dramma collaterale e vitalità romantica, pulsando di ottimismo e pessimismo insieme. Viene quasi ricostruita una società ideale, che possiede regole e tradizioni, padri costituenti e madrine buone, sgambettatori ed amici fraterni, uniti in una fabbrica di economie di cui loro sono un tassello non indifferente.

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Se tra i corridoi di questo universo scintilla l’amore, quegli occhi abituati a codici, prezzi, cartellini e ripiani, lo intercettano al volo e la luce che normalmente non benedice la vita di queste persone visti gli orari di lavoro e le distanze che devono percorrere, spunta improvvisa e non trascurabile.

Penna docile nei dialoghi essenziali, dolci indugi nel quotidiano destreggiarsi tra le corsie, il film parla con una luce opaca e malata, che adegua la storia ad una malinconia sfumata, rendendola una primizia fuori stagione, seducente e fuoriposto, che addolora sia per l’assenza di un benessere che stenta ancora, sia per la mancanza di un’epoca che non c’è più.

Questa non-commedia amorosa sui generis incastona solitudini pur parlando di sentimenti, ritrae scorci periferici di umanità sacrificata, che si inventa la felicità da sé, in mezzo al nulla, ad esso teneramente resistente e disperatamente succube, immaginando il bello dove non c’è, o il mare dietro il rumore degli ingranaggi di un pesante montacarichi.

Un valzer tra gli scaffali
IN DEN GÄNGEN (R: Thomas Stuber); v.l.: Franz Rogowski und Sandra Hüller

Molto merito ha il protagonista Franz Rogowski (già visto in A hidden life e prossimamente nei Freaks Out di Mainetti regista tra l’altro di Lo chiamavano Jeeg Robot ), premiato per questa sua performance come miglior attore nei German Film Award, interprete e danzatore, artista poliedrico,  gemello nel volto del collega Joaquin Phoenix, dalla presenza fisica segnante, perfettamente a suo agio nei panni atipici e sospesi del giovane Christian, occhi caparbiamente fissi e lucenti, difficili da evitare, che sembrano provenire da molto più lontano di lui.

Ode alla colonna sonora, studiata ed amata, che contamina tradizione, gospel, rock, progressive, con stile fiero e senza meccanicità: da segnalare gli splendidi valzer che risuonano tra gli scaffali dell’ipermercato ogni volta che si entra nella notte; Strauss o Bach dettano il mood dominante con cui ogni pezzo, macchina, individuo si sposta con leggiadria nello spazio inquadrato, presagio di gentilezza e inno all’amore che verrà, una poesia improvvisa laddove non te l’ aspetteresti mai.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

L'ipermercato di una periferia nell'ex-Germania dell'Est è un microcosmo sociale perfettamente organizzato. Qui sboccia la storia d'amore tra Christian e Marion. Il grande nel piccolo, l'amore nel disamore, il vecchio nel nuovo: racconto sentimentale e crepuscolare che trova la bellezza e l'umanità nel quotidiano e ne fa poesia.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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