Commedia romantica basata sulla reale storia d’amore tra Kumail Nanjani, sceneggiatore e protagonista del film e sua moglie Emily anche lei scrittrice, qui interpretata da Zoe Kazan; al centro la presunta incompatibilità tra culture e religioni differenti condotta attraverso un mix intelligente di ironia, sarcasmo, caricatura e l’introduzione di un evento insolito e fortemente allegorico, quasi out-of-topic per il classico decorso di questo tipo di storie, ossia una malattia (da qui il titolo The big sick).
Kumail è un ragazzo pakistano, naturalizzato americano, guida taxi uber per mantenersi, ha una famiglia convenzionalissima che vorrebbe per lui molte cose: innanzitutto, che diventasse almeno avvocato, non potendo il giovanotto aspirare alle altre due uniche professioni degne di essere chiamate tali ossia dottore ed ingegnere, poi, che pregasse cinque volte al giorno come ogni buon musulmano, ed infine, cosa più importante, che sposasse una ragazza pakistana dalle ottime referenze in uno dei tradizionali matrimoni combinati con cui il Pakistan si riproduce da generazioni. Perciò la madre, ad ogni pranzo in casa, fa capitare alla porta una giovane donna “di passaggio”, lussuosamente e folkloristicamente agghindata, che lascia foto, recapiti ed una sorta di curriculum in attesa dell’appuntamento fatidico.
Kumail, però, ha una visione diametralmente opposta del proprio futuro: vuole diventare uno stand-up comedian, ossia un comico di professione, inoltre non prega perché non sa se crede o meno e, soprattutto, per arrivare al matrimonio deve prima innamorarsi.
In una delle serate in cui si esercita con i suoi numeri davanti al pubblico di un locale, conosce Emily, bionda, minuta, laureanda in psicologia, con un ex-marito alle spalle, sorriso sgargiante ed occhi blu cielo. La loro relazione parte a folle velocità ed è splendida, ma, mentre la ragazza racconta tutto di sé e prova a fargli conoscere la propria famiglia, Kumail, procrastina, abbellisce la verità, mente: non ha il coraggio di confessare ai suoi che ama un’americana bianca, sa che per questo potrebbe perderli per sempre e gli manca il coraggio.
Scoperto l’inganno la giovane, disperata, lo lascia; poco dopo si ammala a causa di un’infezione misteriosa ed è indotta in coma. Kumail si trova a dover firmare il consenso per l’intubazione. Mentre la ragazza è incosciente, il giovane dovrà fronteggiare i genitori di Emily arrivati al capezzale della figlia, la sua famiglia che chiede il conto delle mancate responsabilità di figlio, una grossa occasione per diventare comico professionista e la possibile dipartita della cosa più importante e preziosa incontrata nella vita.
Il mio grosso grasso matrimonio greco e metà delle pellicole semi musical che arrivano da Bollywood -solo per fare alcuni esempi generali- ci insegnano che lo scontro tra etnie, razze, religioni, a volte anche solo ceti sociali è materiale adatto ed anche abusato per trarre commedie sentimentali, non di rado popolari, storie d’amore frastagliate che culminano con happy ending e allargamento consolatorio delle vedute culturali reciproche.
The big sick non delude da questo punto di vista; la differenza sta nel piglio mantenuto dal racconto: seguendo l’ottica di un aspirante comedian, si prendono in giro i limiti di certo integralismo coltivato in territori geografici del tutto inadatti per farlo, caricaturizzando la famiglia pakistana in modo brillante e non esagerato, facendo ironia sugli arabi post 11 settembre, sugli immigrati, sui comici falliti o di successo, sul rapporto di coppia in età avanzata, sulle responsabilità della vita.
Stilisticamente ogni spazio è una possibile occasione per sfoggiare il pacato sarcasmo involontario del protagonista verso tutti, mentre le dinamiche attorno a lui peggiorano, le famiglie implicate si moltiplicano e la situazione critica non permette né tempo, né modo, né voglia di sorridere. La maschera del presunto clown si smorza e cede il posto ad una comprensione profonda, una maturità ed una pazienza che bisognava solo di un espediente per esprimersi oltre le barriere reciproche. Kumail ha bisogno dell’uragano Emily, sia da sveglia che da incosciente, per potersi sbloccare e trovare lo spazio della propria verità.
Tra autodeterminazione americana e rigida ritualità pakistana, tra islam e pigra indecisione religiosa occidentale, tra ragione e sentimento, obbligo o verità, non c’è un vincitore univoco. Permane, semmai, il compromesso. Non ci sono torti o ragioni totali, tutti i personaggi hanno contraddizioni e nella storia le cose non combaciano mai perfettamente, non si allineano le opportunità o i momenti di armonia, esattamente come nella vita reale; poiché tutte le famiglie sono uguali, hanno problemi i coniugi pakistani unitisi per volere di altri e quelli statunitensi traditi dal tempo e dalla fiducia, sono parimenti tristi le scenate di entrambi, poiché tutti e due hanno priorità personali non sacrificabili, segreti, debolezze, nodi irrisolti, mancanze, errori non ricuciti, limiti più forti di loro, che non dominano e che meritano rispetto, pur nel dolore, qualunque sia la scelta da fare.
E’ il tempo a dare guarigione e giustizia a persone e fatti, ed è il tempo che la malattia di Emily, improvvida ed improvvisa metafora, impone a tutti i personaggi: il mondo si arresta e resta a riflettere oltre il proprio naso, mentre il protagonista incontra-scontra-si allea con i genitori della ragazza e questi ultimi capitolano ai loro stessi difetti. Alla fine tutti crescono un po’ di più.
Non casuale, ma simbolica è la scelta della malattia: una patologia autoimmune, pericolosissima, difficile da individuare, che impedisce alle difese immunitarie di riconoscere se un tessuto sia buono o cattivo, provocando infiammazioni improvvise, acute, croniche, illogiche, violente, dovute a false informazioni, difese troppo elevate ed eccessiva reattività; proprio come accade verso il diverso, che scatena l’intolleranza di chi si fa contagiare da una paura non ben identificata ed aggredisce, senza vedere la natura reale dell’altro, lasciandosi travolgere dall’infezione collettiva, dal giudizio sommario o da stanchi e svuotati automatismi. La discriminazione è qui duplice e reciproca: bianchi che guardano con sospetto un asiatico e arabi che rifiutano un’americana; è uno scontro dalle ore contate, se non fosse che la storia in quanto autobiografica e non architettata a tavolino, sorprende, lasciando tracce di sè nel finale, tutto da ri-guadagnare.
Spensierato, ma non troppo, con un ritmo rilassato, una dinamica scissa tra prima e seconda parte e la malattia a fare da bivio, il film, miglior sceneggiatura originale ai Critics’ Choice award 2018, candidato agli Oscar 2018 per la stessa categoria, è guidato dall’abile regia di Michael Showalter, ed è integrato dai suggerimenti del produttore Judd Apatow esperto nel genere commedia. Tra gli interpreti, oltre all’autore protagonista, splende la grinta e l’energia di Holly Hunter, nel ruolo della madre di Emily, volitiva ed intraprendente.
The big sick resta impresso come una riflessione ben piantata a terra, su temi divisivi ed irrisolti, che tende a porre domande, non a risolverle, comportandosi in modo più intelligente della media dei suoi consimili e riuscendo far sognare quel tanto che basta per farsi credere veramente.
Voto Autore: [usr 3,0]