Allo scorso 69. Festival di Berlino, nella sezione Panorama, è stato presentato Selfie, piccolo grande documentario diretto da Agostino Ferrente e girato con un Iphone che lo stesso regista ha messo in mano ad Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, due sedicenni amici da sempre, protagonisti di se stessi, in una narrazione che vede i loro occhi sempre puntati sullo schermo e i loro dialetti rincorrersi, spezzarsi, sovrapporsi, non trovare parole, nel tentativo autentico e toccante di raccontare come sia la vita di un’adolescente comune in un quartiere non comune di Napoli, il Rione Traiano.
Qui nel 2014 è stato ucciso Davide Bifolchi, coetaneo dei due ragazzi, scambiato per latitante da un carabiniere che nella foga di dare senso al proprio dovere ha fatto partire, così è stato detto, un proiettile letale dalla propria pistola: attorno al ricordo del giovane drammaticamente scomparso, cui non si è data giustizia nel processo omertoso avvenuto in tribunale, né in quello mass-mediatico fuorviante, sensazionalistico e macina fango che è ovviamente seguito, si snoda l’estate del 2017 di Alessandro e Pietro, nei luoghi che furono di Davide e che restano della sua famiglia, nelle vie della camorra e dello spaccio capaci di trovare reclute sempre meno adulte, nei campetti da calcio improvvisati ed abbandonati al degrado, di fronte a murales di protesta cittadina e memoria urbana, o dietro palazzoni dalle improbabile vernici pastello scrostati e lasciati lì come ferite da esibire, mentre il caldo di agosto tramortisce e svuota la città.
I due compagni, che si dicono fratelli, che si chiamano “vita mia”, hanno scelto di essere ‘bravi guaglioni’ e scontano in strada e in solitudine il loro angusto limbo in cerca o in attesa della felicità: Alessandro è cameriere in un bar, ha lasciato la scuola perché non riusciva ad imparare l’Infinito di Giacomo Leopardi, così ci dice, è religioso, vuole essere e spera di essere sempre una persona onesta, guadagna poco, non ha mai vacanze, ma il suo lavoro è pulito e suo padre, che vive altrove dopo la separazione dalla madre e che non vede da parecchio tempo sarebbe fiero di lui, soprattutto “ora che sta facendo un film”.
Pietro, invece, ha studiato da parrucchiere ma non trova lavoro: ha perso di recente tre cugini in sparatorie varie, il padre è uno stagionale fuori Napoli e lo vede una volta a settimana; grande cuore, troppa stazza, occhi dolcissimi, vorrebbe girare scene d’azione alla Gomorra, come nei film napoletani tanto di moda, ma l’amico-collega non è d’accordo: nei documentari vanno messe cose belle, non solo o non più quelle brutte.
Sono stanchi anche i due ragazzi di un racconto metropolitano stracolmo di boss, malavita, droga e soldi facili: ne fa le spese la città, omologata al male, vittima di un’idealizzazione criminale che lo stesso strumento cinema ha contribuito a creare e si ritorce sui giovani come loro o anche più piccoli, le prede più condizionabili.
Così, con uno smartphone in mano confessano i loro sedici anni, quello che sono, quello che ancora non sono, il lavoro prima di tutto da trovare, perchè lo studio è alle spalle, l’impaccio con le ragazze, un tuffo nel mare dei ricchi di Posillipo cui segue un’ infinita, faticosissima simbolica risalita, una canzone sul motorino guidato senza casco, in due, in tre, con i caffè da portare e il bastone del selfie teso in avanti, una giornata passata a prendere il sole, un compleanno festeggiato da soli in due e una riflessione su ciò che non si ha, che fa male solo a dirlo, figuriamoci a pensarlo, forse magari nel futuro, forse i loro figli, forse i nipoti, forse.
Dalla telecamera del telefonino passano i volti delle vie di Napoli, di tutte le età, dai ragazzi della sala giochi-biliardo, ognuno con un soprannome che ne racchiude un segreto di vita, alle nonne senza tempo che restano sempre un po’ madri dei propri nipoti, dai bambini che chiedono sigarette dopo aver fatto un’intervista con il regista, alle ragazzine che candidamente ammettono di sapere che nel loro futuro è probabile si innamorino e sposino una persona che finirà in carcere e allora sarà difficile andare avanti, ma ci riusciranno, come hanno fatto loro da figlie e le rispettive madri con i padri-mariti carcerati, tanto basta il rispetto e il sentimento per riempire un sacrificio.
Tra vicoli e canzoni neomelodiche, riprese mute di telecamere di sorveglianza dai colori spenti e sapore post-apocalittico, inquadrature da self-tape deformate su visi troppo ovali, si susseguono, con montaggio paratattico e dissolvenze nere, incursioni personali e panoramiche umane di malinconico disagio o di improvvisa euforia a buon mercato, mentre capita che una musica classica casuale nella sua complessità sconosciuta rapisca e affondi in una commozione che si conosce, ma non si vuole nominare.
Prende il cuore questo piccolo esperimento di assoluta onestà, ci racconta la città problematica e chi la vive con candore, nostalgia e una profondità inaspettate; c’è più Napoli in questi settantotto minuti di quanta ne si trovi in qualunque pellicola o serie più o meno patinata di cui tanto si sia parlato; dare la parola a chi ancora non ha perso l’innocenza, ma la difende a volte consapevolmente a volte no, è mossa intelligente e di notevole efficacia, strappa sorrisi, lacrime e riflessioni con la stessa crudele ed istantanea sincronicità dei protagonisti. A guardarli, a pensarli, ad ascoltarli, questi due ragazzi, viene da dirsi che forse sì, un mondo migliore, con loro, sarebbe bello fosse possibile.
Il muro della siepe di cui Leopardi parlava nella sua poesia è lo stesso che vede Alessandro quando certe mattine si sveglia e guarda al rione dalla sua finestra: non ne vede la fine, non vede cosa c’è dietro, resta a combattere nella sua trincea, in attesa che cada, come ogni muro di questo tipo dovrebbe prima o poi fare.