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Scary stories to tell in the dark

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Le storie scary, ossia spaventose, da raccontare al buio, sono quelle ispirate all’opera in tre volumi dallo stesso titolo di Alvin Schwartz, pubblicata tra il 1981 e il 1991, qui riadattata cinematograficamente dall’abile mano del norvegese André Øvredal, dietro sostegno in sceneggiatura e produzione del buon Guillermo del Toro. Così nasce un prodotto con finale in divenire, distribuito nell’autunno del 2019 e di cui nell’aprile scorso è stato già annunciato il sequel, a firma dello stesso regista, con soggetto realizzato proprio da del Toro.

Un buon successo, per un buon horror, confezionato con classe, premura, qualche inevitabile rigidità reiterativa data la struttura di partenza, poggiata solidamente su topoi tradizionali e basi classiche, a cominciare dai protagonisti, adolescenti isolati dal mucchio per i più diversi motivi, appassionati di scary stories del terrore, fragili e vitali, con in pugno il futuro in un momento storicamente difficile ed un’ inconsapevole riserva infinita di coraggio.

Scary stories to tell in the dark

C’è un fantasma che muove i fili di una vendetta cieca e spietata, portata avanti ad ogni costo, come sconto da pagare per il proprio atroce, ingiusto destino, ancor più terribile poichè infertogli dalle persone che le furono più care. E c’è poi la notte di Halloween, l’immancabile tempo in cui far accadere ciò che non dovrebbe, in cui nascono e si diffondono i racconti della paura, (le scary stories del titolo), e le leggende connesse prendono malefica vita, risvegliando spiriti, mostri e rancori mai risolti.

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In questa iconica serata di macabri travestimenti ed esorcizzazione della morte, Stella (Zoe Margaret Colletti) ed i suoi amici Auggie (Gabriel Rush) e Chuck (Austin Zajur) incontrano Ramon (Michael Garza), misterioso ragazzo indiano solitario che si aggiunge alla comitiva dopo averne preso le difese in uno scontro con un gruppo di bulli. I ragazzi per celebrare degnamente la nottata si rinchiudono in una casa definita stregata, la dimora dei Bellows, dove si dice da sempre sia stata segregata la figlia più piccola Sarah, colpevole portatrice di una qualche sconosciuta mostruosità e di sciagura: ad ogni bambino che si avvicinava alle mura del palazzo per spiarla, lei raccontava una storia tremenda ed una volta udita la sua voce, chiunque l’avesse ascoltata, perdeva la propria vita in modo violento e misterioso.

Stella ed i suoi amici ritrovano nella cantina-prigione segreta di Sarah un libro scritto con il sangue, pieno di storie lugubri: la ragazza, che ama scrivere e si immagina futura autrice di libri, porta con sé quella strana reliquia. Da quel momento in poi ogni sera le pagine iniziano a riempirsi di storie che appaiono con caratteri sanguigni su carta antica giallastra, come favole orribili in cui viene più o meno esplicitamente narrata la morte di ciascuno dei giovani protagonisti; buoni, cattivi, chiunque sia entrato in contatto con Sarah, deve sparire: scatta così una corsa contro il tempo per fermare l’ira del fantasma, bloccare la scrittura funesta del libro e salvare le vite dei giovani ragazzi coinvolti.

Scary stories to tell in the dark

Cura ed attenzione al dettaglio premiano questo horror adolescenziale, ambientato nel 1968, momento storico di cui con perizia non si tralascia alcun dettaglio, dalla campagna bellica del Vietnam del cui impatto si aveva l’esatta percezione ossia andare a morire non per il futuro del paese, ma per pochi spiccioli, alle imminenti elezioni presidenziali che apriranno alla controversa era Nixon; dalla moda alle macchine, dalla radio alla tv catodica in bianco e nero, dal drive-in in cui si imbattono i ragazzi in fuga con il film “La notte dei morti viventi”, pellicola horror-cult di Romero, datata lo stesso anno, all’urbanistica locale, lasciata a vegetare tra caseggiati più o meno bradi in mezzo a sterminati campi di pannocchie, nell’immaginaria cittadina di provincia chiamata Mill Valley.

C’è una sottile aria di apocalisse che incupisce l’ambra vintage della fotografia, quasi che le vicende orrorifiche della banda di adolescenti siano presagio della disdetta dei tempi futuri, del cambiamento d’epoca, regime e mentalità del paese stesso: qualcosa albeggia nell’orizzonte storico degli eventi, non ha un buon odore, ed è solo all’inizio.

Altro parallelo binario, probabilmente troppo smaccato, è quello della scrittura; le storie guariscono, feriscono, più vengono ripetute più diventano vere: è questo un mantra reiterato ad inizio e fine film, ed anche nel suo sviluppo intermedio, una specie di formula magica anticipata alla base del mistero da sciogliere, del movente delle sparizioni, della causa delle uccisioni; nelle storie dunque è contenuta la chiave del perché scriviamo, di ciò che manca. L’ostacolo della vita trova pace tra le righe, poiché scrivere è un’espiazione, è una resa dei conti con se stessi, un atto di introspezione spaventoso e liberatorio, che scruta negli abissi personali, lasciando morti, feriti e scomparsi sul campo di battaglia.

Scrivere è andare in guerra, e non ci sono corpi da recuperare, esattamente come introvabili sono gli amici scomparsi di Stella, ed indistinguibili i giovani soldati caduti in Vietnam, pianti dalle madri americane in piedi davanti ad un’anonima croce bianca, uguale per tutti.

Scary stories to tell in the dark

La scrittura perciò ci interpreta, ci porta a compimento: lo intuisce Stella quando dice che non sono loro a leggere il libro, ma è il libro a leggere loro, i timori personali, gli incubi di ciascuno, le fragilità taciute, la cui scelta a monte poteva essere più scaltra e potenziata nel significato o nella gittata metaforica, sì, ma stiamo pur sempre parlando di quattordicenni-quindicenni, con aspirazioni liquide e paure deformate, più innocenti ed eroici di qualunque adulto tipo a loro confronto.

Sarah e Stella hanno punti in comune strategici, quasi fossero specchi capovolti, la prima fantasma perseguitatore e bambina perseguitata, la seconda bimba lasciata dalla madre, tradita da un affetto carissimo, auto colpevolizzata per tutto ciò che di brutto è accaduto nella sua vita. Entrambe intimamente sole. Scrivere la storia di Sarah è come scrivere la propria autobiografia, concedersi un perdono per qualcosa che di fatto non si è mai compiuto, un’assoluzione che non si ha mai avuto il coraggio di chiedere e che costa cara.

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Ottimo il cast: la Colletti è emotivamente consapevole e generosa, calamita lo sguardo e convince; meritorio il calibro degli effetti speciali, nati da bozzetti gentili, che non stonano nel contesto nè frastornano l’attenzione, semmai, senza fare troppo rumore, si inseriscono organicamente, accompagnando la narrazione scary non dominandola, in un efficace omaggio all’epoca d’ambientazione, serrata nella finta calma pre-tempesta.

L’architettura del racconto scary ha un programma visibile, intuibile, che, parzialmente ma non in modo determinante, inficia sulla tenuta ritmica, più che sul risultato finale complessivo. C’è un inespresso bisogno d’amore e di accettazione in ogni angolo della narrazione, che sembra trovare pace nell’omaggio finale di Stella alla storia, in quanto oggetto capace di ogni donare il coraggio per esprimere il bisogno e la consolazione di avere una casa a cui tornare.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Una banda di adolescenti alle prese con un diario maledetto che profetizza la morte di ciascuno. E' Halloween, siamo nel '68, infuria la guerra in Vietnam. Favola nera per esorcizzare la morte diventata sgradito ospite fisso del paese, apologo sulla realtà della finzione scritta, presagio di un' epoca che sta per cambiare. Parzialmente prevedibile per struttura, curatissimo nel dettaglio, vanta Guillermo del Toro nel comparto sceneggiatura e produzione, anche per il prossimo confermato sequel.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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