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Panama Papers, la recensione del film Netflix

Il 3 aprile 2016 è stata una data “clou” per milioni di risparmiatori in ogni angolo del globo, con la pubblicazione di un fascicolo riservato e composto da oltre dieci milioni di documenti confidenziali avvenuta per una fuga di notizie dallo studio legale panamense Mossack Fonseca. Il documento conteneva dati dettagliati su più di duecentomila società off-shore e di come ricchi uomini d’affari e politici nascondessero le loro entrate al controllo dello stato. Operazioni di riciclaggio grazie alle quali la reale quantità di denaro veniva esentata dalle tasse e le frodi diventavano all’ordine del giorno, coinvolgendo soprattutto i piccoli risparmiatori o chi, in generale, non poteva permettersi spese legali esose. Su questo complesso tema finanziario un regista sempre attento al contemporaneo come Steven Soderbergh ha diretto il suo ultimo film, in concorso al recente Festival del Cinema di Venezia e sbarcato a metà ottobre in esclusiva sul catalogo di Netflix. Un titolo, Panama Papers, omonimo del suddetto, noto, scandalo che ha monopolizzato l’opinione pubblica qualche stagione fa salvo poi essere velocemente dimenticato, come fa notare lo stesso cineasta nell’incisivo epilogo (come vedremo più avanti).

Panama Papers

La sceneggiatura di Scott Z. Burns, basata sul libro Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite del giornalista Jake Bernstein, è tagliente e intelligente nel tratteggiare in chiave tragicomica quanto accaduto e nello “spiegare” ad uno spettatore poco informato sull’argomento le dinamiche chiave di queste truffe globali in maniera semplice e intuitiva. Per rendere comprensibile e appetibile un tema così complesso al grande pubblico Soderbergh ha optato sin dal prologo sullo sfondamento della quarta parete: il doppio voice-over dei due “villain” e il conseguente “a tu per tu” con la camera da parte loro nello spiegare a chi guarda l’impostazione delle pratiche ingannevoli, mette immediatamente a proprio agio e rende palese il particolare e brioso mezzo stilistico e narrativo utilizzato da Panama Papers per risultare immediato e accattivante. Nel corso dei novanta minuti di visione, divisi in diversi capitoli tematici, il cineasta non si siede sugli allori e offre squarci ispirati e una buona varietà di situazioni, in grado di mantenere la soglia dell’attenzione sempre costante su un’impostazione base da grottesca e lucida black comedy.

Panama Papers

L’inizio e la conclusione coincidono, il primo su atmosfere più scanzonate e la seconda amare, nello sfruttare le infinite vie del cinema e ci regalano due piani sequenza da antologia, dialoganti ed esemplificativi nonché precisi atti di accusa verso chi dovrebbe fare qualcosa per intervenire (il governo americano in primis) ma lascia le cose come stanno in cambio di un reciproco interesse. Panama Papers offre ad ogni modo uno sguardo “internazionale”, con l’ultimo dei tre tasselli principali ambientato in terra cinese e non privo di una sequenza inaspettata e parzialmente disturbante per gli stomaci deboli, seppur brevissima. La storyline principale segue invece le vicende della vedova Ellen Martin, donna di mezz’età che ha da poco perso il compagno di una vita in un tragico incidente e, vista l’impossibilità di un risarcimento dalla sua assicurazione, inizia una sorta di viaggio / crociata alla ricerca di uno studio legale con sede a Panama City, solo un infinitesimale tassello di un piano su scala globale che, tra prestanomi e magheggi di ogni sorta, è riuscito sempre a farla franca assicurandosi lauti guadagni e lasciando le briciole ai propri clienti. Da lì l’attenzione si sposta poi su un ricco uomo d’affari afroamericano che tradisce la moglie con la migliore amica della figlia teenager e per l’appunto in estremo Oriente, ponendo l’accento sulle varie “regole” di questo sporco mercato per delineare un quadro a tutto tondo.

Panama Papers

Soderbergh è al solito preciso e rischia a lungo andare di peccare di formalismo: in Panama Papers nulla è fuori posto e proprio questa perfezione priva di sbavature rischia di sembrare troppo fittizia per essere al contempo genuina. Nell’ora e mezza tutto è preparato e servito come un gustoso dessert, tanto bello da vedere quanto a rischio di un gusto parzialmente artificioso: più pregiato che difettoso in ogni caso, grazie anche alle magistrali performance di un eterogeneo cast all star dispiegato tra ruoli principali e secondari. I cammei d’eccezione di interpreti del calibro di James Crownell, Sharon Stone, David Schwimmer, Matthias Schoenaerts e Robert Patrick sono il perfetto contorno alle parti da leoni lasciate ai tre protagonisti assoluti, con Antonio Banderas e Gary Oldman deliziosi nei caricaturali panni di Ramón Fonseca e Jürgen Mossack (le controparti reali hanno provato a bloccare l’uscita del film per via legali, senza successo) e una Meryl Streep che si sdoppia in un duplice ruolo con la sua consuete bravura ed è al centro di un epilogo finale dove la finzione si mette a nudo in un monologo esplicativo e di denuncia, da applausi a scena aperta. Per un’operazione che divulga e intrattiene con equilibrio e scorre via veloce e frizzante con ammirabile, acre, leggerezza.

Voto Autore: [usr 4]

Maurizio Encari
Maurizio Encari
Appassionato di cinema fin dalla più tenera età, cresciuto coi classici hollywoodiani e indagato, con il trascorrere degli anni, nella realtà cinematografiche più sconosciute e di nicchia. Amante della Settima arte senza limiti di luogo o di tempo, sono attivo nel settore della critica di settore da quasi quindici anni, dopo una precedente esperienza nell'ambito di quella musicale.
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