Dopo il successo del suo primo film, Reprise (2006), il regista norvegese Joachim Trier realizza nel 2011 Oslo, 31. agosto, secondo capitolo di quella che è stata definita “La Trilogia di Oslo” di cui fa parte anche La persona peggiore del mondo (2021), film che ha ottenuto anche due candidature agli Oscar.
Ispirato al film di Louise Malle, Fuoco fatuo, Oslo 31. agosto racconta la storia di Anders, ex tossicodipendente che sta per terminare il suo percorso riabilitativo e che ottiene un permesso per tonare in città in vista di un colloquio di lavoro.
Il film è attualmente disponibile su MUBI.
La trama
Oslo, 31. agosto si svolge tutto in una singola giornata, quella a cavallo tra il 30 e il 31 agosto, e vede il trentaquattrenne Anders (Anders Danielsen Lie) come protagonista.
Il film si apre con diverse immagini di repertorio con formati diversi, mentre la voice over di sconosciuti parlano del proprio rapporto con la città di Oslo. Ci spostiamo poi su Anders, appena svegliatosi nel letto di una ragazza nuda. Scopriamo ben presto che il ragazzo è un ex tossico che sta faticosamente provando a riappropriarsi della sua vita.
Capiamo fin da subito le sue difficoltà, tanto che già dopo un paio di scene vediamo Anders riempirsi le tasche di sassi e tentare il suicidio in un lago, finendo però per far prevalere il suo istinto di sopravvivenza. Il ragazzo parte poi per Oslo per sostenere un colloquio di lavoro che potrebbe riabilitarlo agli occhi della società.
Il suo ritorno nella capitale lo porta a incontrarsi (e scontrarsi) con diverse persone appartenenti al suo passato come l’amico storico Thomas (Hans Olav Brenner), adesso con una famiglia, la compagna della sorella Nina che non vuole più vederlo, il suo gruppo di amici.
I tentativi di Anders di riconnettersi con la sua vita risultano più difficili del previsto, tanto che tornerà ben presto a bere e a dover riaffrontare tutti quei demoni che aveva cercato di respingere.
Oslo, 31. agosto, una riflessione sulla vita
Il viaggio di Anders attraverso Oslo è in realtà una metafora del suo percorso di redenzione, che non per forza prevederà un lieto fine. Il ragazzo è infatti tremendamente solo, abbandonato da tutte quelle persone che un tempo gli erano vicine, e che a causa del suo comportamento adesso si sono irrimediabilmente allontanate. Se pensiamo infatti ai suoi affetti più cari, vediamo come nessuno di questi sia presente. Alcuni personaggi non si vedono mai, ma come dei moderni Godot se ne avverte la presenza in maniera prepotente: la sorella di Anders, i suoi genitori, la ex ragazza Islin che cerca ossessivamente di contattare al telefono, tutte figure che non avranno mai un volto o una voce, ma il cui giudizio pesa sulle spalle del ragazzo.
In Oslo, 31. agosto possiamo ritrovare tanti elementi tipici della filmografia di Trier come una riflessione sul disagio di una generazione “di mezzo”, incapace di trovare una collocazione esatta, una generazione spaccata a metà tra chi punta alla carriera, a una stabilità familiare, a una vita tranquilla e chi invece si sente un eterno ragazzino in balia degli eventi. I rapporti umani rarefatti e spesso inconsistenti sono dominanti in una Oslo oscura, specie quando cala la notte al termine della giornata.
Il film è quindi un ragionamento sulla vita, sia negli aspetti negativi, sia in quelli positivi, un’opera che racconta le difficoltà di un ex tossicodipendente a reinserirsi nella società, ma che non disdegna di allargare la lente a tutte le persone che compongono uno strato sociale così confuso e spaesato.
Quella di Anders è quindi una via di uscita soltanto apparente, che in realtà non porta da nessuna parte, un’amarissima presa di coscienza di ciò che è la vita, in cui la parola “speranza” è soltanto l’illusione di un effimero e irraggiungibile mondo migliore.
La regia di Trier
Come in Reprise e in tutti i successivi film che compongono la sua filmografia, lo stile di Joachim Trier è potente e riconoscibile, ma probabilmente è proprio in Oslo, 31. agosto che il regista norvegese dà il suo meglio.
Le inquadrature sono ricercate e geometriche nei campi medi e lunghi, e diventano poi delle vere e proprie fotografie quando ci si avvicina sui primi piani dei personaggi, la cui mimica facciale risulta essenziale, ma al contempo perfetta. La macchina, inoltre, in certi momenti volteggia tra il protagonista e gli sconosciuti che lo circondano, un po’ come se Trier volesse suggerirci che ognuno di loro, ogni abitante di Oslo, è il protagonista di una storia tanto interessante quanto quella narrata. E anche il comparto sonoro asseconda questa scelta, restituendoci momenti come quando, seduto in un bar, Anders ascolta in silenzio le conversazioni di chi gli sta intorno: discussioni sparse, pettegolezzi, vite di persone sconosciute, quasi come se Oslo fosse infine la vera protagonista della storia.
Ma nell’ultima parte del film, Trier decide di focalizzarsi soltanto su Anders, come se la macchina da presa fosse consapevole del destino del protagonista e volesse accompagnarlo nella sua ultima discesa negli inferi.
Il film poi si chiude con una sequenza di montaggio in cui rivediamo tutti i luoghi in cui è stato Anders nel corso della sua giornata a Oslo, luoghi in cui il ragazzo ha avuto un confronto con persone significative, persone che lo hanno portato a un’amara presa di coscienza che innesca la sua decisione finale.
Uno stile ricercato e potente, che prende in prestito elementi della Nouvelle Vague e del cinema nordico, ma con un tocco personale di Trier che rende il film unico.
Oslo, 31. agosto, la recitazione
Uno dei punti di forza del film è proprio la recitazione dei vari personaggi. A parte Anders, nessuno si prende la scena in maniera preponderante, come se fossero tutti attori minori al servizio del capocomico a cui spettano gli onori della ribalta. Soltanto che in questo caso, a stare in primo piano è la sofferenza del protagonista, sempre ben visibile sul volto incredibile di Anders Danielsen Lie.
L’attore feticcio di Trier tira fuori la sua miglior interpretazione della carriera, e porta in scena un Anders che sembra quasi un suo doppio (curiosamente personaggio e attore hanno lo stesso nome di battesimo).
Ma anche i secondari, che spesso appaiono soltanto per pochi minuti a schermo, risultano adeguati alla scena, e offrono ad Anders una possibilità di confronto che porta avanti lo sviluppo del suo personaggio. Ad esempio, la vecchia amica Mirjam (Kjærsti Odden Skjeldal) con cui Anders ha avuto una storia, il già citato Thomas, o l’avvenente Renate (Renate Reinsve), contribuiscono tutti a portare in scena dialoghi memorabili, figli anche dell’ottima scrittura di Trier ed Eskil Vogt, il suo sceneggiatore di fiducia.
Sommando tutti gli incontri del protagonista e ciò che accade con loro, è come se ci apparissero chiare le motivazioni che portano Anders al suo ultimo gesto, un po’ come se per il ragazzo non ci potesse essere un finale diverso.
Conclusioni
Oslo, 31. agosto è un film toccante ed esistenziale, capace di raccontare la storia di un ex tossicodipendente che prova a farsi accettare di nuovo da tutti, ma anche di far riflettere lo spettatore sulla nostra società, in cui i giovani faticano sempre di più a ritrovarsi.
Un film che in fin dei conti (ancor prima di quanto fatto da Nolan con il suo Tenet) risulta essere quasi un palindromo: si apre pian piano e quando si è completamente schiuso inizia a richiudersi su sé stesso, ritornando al punto di partenza (come nella sequenza di montaggio finale), esattamente come Anders che finisce per ricadere nel vortice oscuro delle dipendenze.
Un’opera sicuramente consigliata, ma che vista assieme agli altri due film della trilogia restituisce un quadro disperato, ma mai così lucido, sull’esistenza umana.