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No exit – la recensione del film thriller

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Il 25 febbraio scorso è arrivato sulla piattaforma di streaming Disney+, ad integrare il catalogo nella sua sezione cinematografica, No exit. Il film (2022) si inserisce nel raggio d’azione del genere thriller e dura novantacinque minuti. Prodotta da 20th Century Studios, la distribuzione statunitense della pellicola è stata inizialmente affidata alla piattaforma Hulu, poi affiancata da Disney sul piano internazionale. Alla regia del lungometraggio si colloca Damien Powers, alla sua seconda opera dopo Killing ground, risalente al 2016. La sceneggiatura, realizzata a quattro mani da Gabriel Ferrari e Andrew Barrer, si innesta a partire dall’omonimo romanzo di Taylor Adams, edito nel 2017.

No exit

La trama del film

La turbolenta Darby (Havana Rose Liu) si trova in una clinica di riabilitazione per tossicodipendenti, ma un destabilizzante aggiornamento proveniente dalla sua famiglia le impone di allontanarsi dalla struttura, sebbene con modalità e mezzi inconsueti. Lungo la strada che la porterà a ricongiungersi con i familiari, tuttavia, la giovane è costretta a sostare quando si ritrova bloccata nel pieno di una bufera. Su consiglio delle forze dell’ordine la ragazza si reca in una sorta di provvidenziale e improvvisata stazione di servizio, poco distante dalla strada che sta percorrendo. Mentre la neve continua imperterrita a scendere, nel corso della notte Darby fa la conoscenza degli altri avventori dell’area di sosta.

Così, durante le ore notturne, la ragazza ha modo di conoscere l’ex militare Ed (Dennis Haysbert) e sua moglie, l’infermiera Sandi (Dale Dickey), ma anche il giovane Ash (Danny Ramirez) e il curioso e oscuro Lars (David Rysdahl). Con il susseguirsi dei minuti, mentre la bufera non accenna ad interrompersi, Darby interagisce con quelli che paiono essere, loro malgrado, suoi compagni di sventure, imparando a conoscerne trascorsi e personalità. Quando una sconcertante scoperta sconvolge la giovane, Darby deve riuscire a trovare la lucidità necessaria a studiare analiticamente la situazione che la circonda e a comprendere con chi confidarsi. Ma, nella notte che separa il gruppo dalla fine della bufera, tra colpi di scena e alcuni inattesi ribaltamenti di ruoli, la vita di ciascuno dei protagonisti sarà messa a rischio.

La recensione di No exit

No exit ricorre a una formula ampiamente sfruttata e consolidata nel genere thriller: si profila un gruppo ristretto ma variegato di protagonisti, li si costringe forzatamente in un ambiente circoscritto e si lascia che i loro trascorsi, obiettivi e spinte emotive (e, perché no, anche il loro istinto di sopravvivenza) facciano il resto. Lo schema è funzionale e comprovato, tanto da riuscire a spaziare dal thriller a varie e eventuali derive narrative che sfocino in altri generi: dal dramma (su tutti, il polanskiano Carnage) all’horror (con Frozen di Green esponente del paradigma) passando per lo sperimentalismo (come nel caso di Climax, Noé). Indubbiamente, la componente di urgenza data dal confinamento in uno spazio – meglio ancora se non particolarmente ospitale – unita allo scontro delle spesso estreme personalità degli attanti definisce una formula in cui la narrazione sembra procedere senza alcuno sforzo e al contempo accattivare, incuriosire lo spettatore medio.

Ciò premesso, per quanto efficace è ben evidente che, in questo senso, il pubblico si trovi di fronte ad una formula che, sebbene forse in modo non conscio, ha già visto decine di volte, di cui si può già immaginare gli esiti e le atmosfere. Attualmente perciò, se questo tipo di paradigma non è associato ad un qualsivoglia elemento di innovazione, ad un surplus narrativo o ad una maestria tecnica irreprensibile (che in No exit non pare accadere) il risultato finale può risultare sostanzialmente scontato. In questo caso il rischio si concretizza: a minutaggio ultimato, resta solo la sensazione di aver subíto qualcosa di già noto, di non valorizzato né arricchito a dovere. E, come sia la storia che l’industria del cinema insegnano, prima ancora che eventuali errori di tecnica non c’è nulla di più imperdonabile e pericoloso che lasciare al proprio pubblico l’impressione di aver perso tempo.

In quest’ottica è evidente che No exit tenti – sforzo apprezzabile ma maldestramente eseguito – di arginare il rischio. In questo caso il tentativo avviene a priori già in fase di sceneggiatura, muovendosi parallelamente su due binari: quello di una solida scrittura di personaggi di spessore e, contemporaneamente, quello di alcune parentesi di derivazione pseudo-horror.

Per quanto riguarda il primo aspetto, trovandosi di fronte ad un numero ridotto di attanti la sceneggiatura vuole distanziarsi il più possibile da meri personaggi bidimensionali, e tenta di dare ai suoi protagonisti trascorsi credibili e travagliati, atti a conferire profondità emotiva ai singoli e quindi potenziale al film nella sua interezza. Troppo concentrata in questo intento, però, la componente autoriale perde di vista il risultato globale, e non realizza di star portando sullo schermo una serie di cliché altrettanto controproducenti – su tutti, spiccano l’immancabile tossicodipendente e la trita icona statunitense dell’ex soldato. Anche laddove la scrittura tenti di arricchire ulteriormente i personaggi, gli elementi che li caratterizzano si perdono poi completamente con l’intensificarsi del filone narrativo thriller rivelandosi quindi pressoché inutili (è il caso, ad esempio, della conflittualità della protagonista con i suoi familiari, spunto appena accennato e quindi prettamente fine a se stesso nell’economia complessiva del film).

Se in questo senso quindi lo spessore dei personaggi sembra non funzionare, altrettanto accade con il côté che spinge in una direzione vagamente horror. In questo senso, la trama thriller vorrebbe aiutarsi con tutta una serie di orpelli non particolarmente necessari a livello narrativo, atti – nelle presumibili intenzioni autoriali – ad intensificare il pathos e suggestionare ulteriormente il proprio pubblico. In quella che vorrebbe verosimilmente essere una deriva di stampo body horror, tuttavia, il senso si perde, e ciò che rimane finisce per risultare solo tristemente splatter (nel senso meno aulico e ammirevole del termine). In questo, non risulta particolarmente intelligente neppure la regia, che avrebbe invece avuto gli estremi per avvalorare elementi di questa natura dando loro, se non un’utilità, quantomeno un senso.

Alla luce di ciò, poco margine resta agli ulteriori aspetti che compongono No exit per salvarlo da un risultato non particolarmente entusiasmante. Sarebbe ingenuo richiedere l’impossibile, dunque, da interpretazioni, montaggio o colonna sonora. E infatti, nell’ordine, anche questi tre elementi seppur non peccando di imperdonabili errori non si fanno particolarmente notare. Per quanto certo non terrificanti, non si può dire che le performances dei protagonisti lascino il segno, e sarebbe evidentemente troppo pretendere qualcosa di differente con il materiale di partenza loro fornito. Il montaggio è indubbiamente canonico e pulito, nessuno strafalcione nei vari raccordi, ma sicuramente non gioca con lo spettatore, non fornisce al pubblico un ulteriore aspetto da poter apprezzare. L’elemento sonoro è relegato a mero accompagnamento, non sembra avere un’identità propria, e in definitiva risulta dimenticabile, quando non inesistente.

No exit

Complessivamente, è indubbio che No exit ambisse a collocarsi sulla scia di precedenti illustri (se non il tarantiniano The hateful eight, di cui condivide alcune premesse, almeno una buona parte di un certo ramo del cinema thriller degli ultimi dieci anni). Tuttavia, il suo adattarsi ad un paradigma sicuramente efficace ma non particolarmente originale potrebbe essersi rivelato una strategia controproducente. E, coniugata ad una quasi totale assenza di azzardo in qualsiasi aspetto che lo componga, il film risulta strettamente fine a se stesso, tanto scorrevole (come un qualsiasi popcorn movie) quanto, purtroppo, dimenticabile.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

No exit prende in prestito un’efficace formula ampiamente sfruttata nel cinema thriller recente, costringendo i suoi protagonisti ad una convivenza forzata che si rivela presto una bomba ad orologeria. Il paradigma che adotta, però, non viene avvalorato in alcun modo, finendo per risultare fondamentalmente piatto e prevedibile.
Eleonora Noto
Eleonora Noto
Laureata in DAMS, sono appassionata di tutte le arti ma del cinema in particolare. Mi piace giocare con le parole e studiare le sceneggiature, ogni tanto provo a scriverle. Impazzisco per le produzioni hollywoodiane di qualsiasi decennio, ma amo anche un buon thriller o il cinema d’autore.

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