Certe volte sono le cinematografie meno conosciute al pubblico medio a realizzare le opere più interessanti. Questa massima vale certamente per il film Dio è donna e si chiama Petrunya. Diretto dalla regista macedone Teona Strugar Mitevska, il film è stato presentato alla Berlinale dell’anno scorso, ottenendo ottimi plausi da parte della critica e ha vinto persino il Premio Lux, assegnato ogni anno dal Parlamento Europeo all’opera cinematografica che si è maggiormente distinta nel trattare tematiche socio-politiche particolarmente rilevanti. Approdata in Italia in occasione del Torino Film Festival e distribuita nelle sale a partire dallo scorso 19 dicembre, la pellicola rappresenta una vera gemma che incrocia in modo molto interessante dramma e satira.
La Petrunya del titolo è una donna di trentadue anni, in sovrappeso, laureata in storia, disoccupata e che vive con i genitori nella cittadina di Stip. Non sembra avere niente di speciale, è indolente e insofferente nei confronti della società e per nulla motivata nel cercare di trovare la propria posizione in essa, causando, proprio per questo motivo, molte liti con la madre, cinica e spietata come pochi altri nel definire e commentare le sue scelte. In seguito ad un colloquio di lavoro andato malissimo, tornando a casa, Petrunya assiste alla tradizionale ricorrenza religiosa della Pesca della Croce. Essa prevede che il sacerdote lanci nel fiume una croce di legno e che gli uomini della piccola comunità si gettino in acqua per afferrarla. Il pescatore vincente ha come premio un anno di fortuna. La ragazza istintivamente si getta nel torrente, e caso vuole che sia proprio lei a prelevare dall’acqua l’oggetto sacro, causando il malcontento e le imprecazioni degli altri partecipanti. Decide allora di fuggire con la croce, ma il suo gesto, per quanto innocuo avrà delle ripercussioni non indifferenti sulla sua figura, passata dall’anonimato alla ribalta nazionale in poche ore.
Dio è donna e si chiama Petrunya, più che un semplice film, è una riflessione su come i costumi tradizionali, specialmente quando hanno a che fare con la religione, possano essere assurti a leggi incontrastabili dalle comunità più o meno grandi. La società presentata dal film è quantomeno arretrata: nella provincia macedone la religione (ortodossa) sembra essere l’unica vera preoccupazione per le masse, che appaiono come ignoranti e superficiali, e le donne, a meno che non siano sante, contano molto poco. Le inquadrature iniziali, che rappresentano gli affreschi della chiesa ortodossa della cittadina, sono molto indicative, rappresentando le figure femminili “scomode” tra le fiamme dell’inferno o divorate da terribili mostri, e alternandole con le effigi delle più grandi sante, immacolate nei loro veli e nelle loro pose statuarie. Persino la polizia, in una società di questo tipo, finisce per rispondere direttamente al sacerdote, in una sudditanza quasi medievale. In un mondo del genere una figura come Petrunya non può assolutamente prosperare. Il fatto che più colpisce della sua personalità è la sua natura ibrida tra l’emancipazione ambita e la rassegnazione di fronte ai meccanismi che regolano la vita del paese in cui è cresciuta, che, seppur in maniera involontaria, è presente nel suo animo.
La protagonista, infatti, è laureata, e la cosa non è di poco conto nel piccolo mondo antico in cui è confinata, ma nei fatti non vuole abbandonare la sua terra, cosa che rende il suo diploma praticamente inutile. “E’ difficile trovare lavoro come storica” dice durante il suo colloquio per diventare segretaria di un imprenditore tessile. Insomma, Petrunya è una donna che sta nel mezzo, e non solo dal punto di vista professionale e di indole. Anche fisicamente, ad esempio. Non è per nulla attraente ma non vuole assolutamente far nulla per sembrarlo. Proprio durante il già citato colloquio, disastroso sotto tutti i punti di vista, il capo, dopo una serie di commenti a dir poco offensivi nei suoi confronti, prova persino a molestarla, salvo poi fermarsi dicendole che non vale nemmeno la pena di andare avanti con la violenza. Sono affermazioni e scene forti, molto attuali non solo nelle piccole realtà come quella macedone, come insegnano i numerosissimi scandali sessuali di Hollywood e non solo. Petrunya di fronte alle ormai abitudinarie offese subìte, arriva a trovarsi in una sorta di Purgatorio tra il senso di inadeguatezza e il disgusto verso un mondo che non è giusto e che non può sembrare tale. Questa dimensione “purgatoriale” la vive non solo interiormente, ma persino nei fatti successivi allo scandalo da lei provocato. Viene portata in caserma, ma non è in stato di arresto, e quindi, teoricamente, può andarsene a proprio piacimento. Tuttavia, per un motivo o per l’altro, Petrunya rimane per ore seduta su quella sedia, in quello stanzino dove tutti, il sacerdote e i poliziotti, la guardano con sospetto e con paura.
Sì, perché il gesto di Petrunya è un fatto che smuove le fondamenta e le coscienze del suo mondo, che fa davvero paura ai dinosauri che lo governano. Uno degli sconfitti nella ricerca della croce, particolarmente furioso per l’accaduto, dichiara alla giornalista incaricata di seguire questa vicenda (la diva del cinema macedone Labina Mitevska, sorella della regista) che “Petrunya è il diavolo”. Di fronte a un prodigio come quello di Petrunya (nessuna donna aveva mai partecipato alla pesca) le basi ideologiche dell’intera comunità vacillano, e l’unica spiegazione diventa quella mistica, diabolica. A dogmi vacillanti si può rispondere con altrettanto fragili assiomi, resi inconfutabili dall’assurdità. Il sacerdote e i fedeli stessi sono perfettamente consapevoli della ridicolaggine delle tesi che portano avanti da secoli, e la regista trova l’espediente migliore possibile per rappresentare questo aspetto. Proprio mentre il sommo sacerdote spiega per la prima volta alla polizia, a scandalo appena avvenuto, perché quello che ha fatto Petrunya è sbagliato e ingiusto, la macchina da presa si sposta, lentamente verso l’alto, tagliando fastidiosamente, agli occhi dello spettatore, i volti in campo. Questo espediente, unito alla scelta di rappresentare sempre gli accusatori di spalle (o addirittura fuori campo) e Petrunya, immobile e centrale, di fronte alla macchina da presa, per tutto il resto del film, risulta molto efficace nell’esprimere il concetto alla base della pellicola. In questo senso lo stile con cui la regista ha portato sullo schermo la protagonista può essere paragonato al modo di rappresentare Giovanna D’Arco da parte dell’immortale Dreyer nel film La passione di Giovanna D’Arco del 1928. Anche in quel caso la macchina da presa era tentennante e “insicura” nel rappresentare la corte e ferma e inflessibile nel rappresentare l’imputata. Anche l’uso frequente dei primi piani in Dio e donna e si chiama Petrunya sembra omaggiare il regista danese.
L’atmosfera generale che si respira guardando il film della Mitevska ha a che fare con il freddo e la chiusura, e si trasforma in vera claustrofobia quando l’azione si sposta nel commissariato. Ricorda, in questo senso, il cinema di Kusturica e del primo Lanthimos, e accresce l’alone di malessere e il senso di inadeguatezza che caratterizzano la figura di Petrunya.
In ultimo, fortemente indicativa è anche la riflessione sul mezzo televisivo, che improvvisamente fa irruzione nella cittadina di Stip. Di fronte alla telecamera, in qualche modo simbolo di civiltà e progresso, gli animi fortemente incendiabili degli abitanti di provincia sembrano sedarsi e controllarsi, come se si sentissero in colpa di essere come sono e volessero edulcorare la propria immagine agli occhi della nazione. Persino la madre di Petrunya, fino al momento dell’intervista televisiva diabolica voce della massa nel rimproverare la figlia, di fronte alla giornalista si redime. La tv, in sostanza, fa sì che le maschere dietro cui si nascondono le masse crollino definitivamente. Essa diventa portavoce e strumento della verità e molla che fa scattare il progresso.
Il premio del Parlamento Europeo calza a pennello su Dio è donna e si chiama Petrunya. Un film onesto e senza scrupoli, che analizza una realtà che nessuno conosce ma che non è più tollerabile in una civiltà che si rispetti. Petrunya potrebbe diventare un simbolo del femminismo e della forza delle donne nella società odierna. L’immagine di Petrunya che cammina sulla neve finalmente libera, alternata con quella del cerbiatto che scopre il mondo, che conclude il film, lascia una sensazione piacevole nello spettatore, che si deve riflettere anche nella società.
Voto Autore: [usr 4]