Cecil Beaton (1904-1980) è un nome che forse in pochi ricollegano immediatamente al cinema, nonostante abbia vinto ben tre Oscar: uno per i costumi di Gigi (1958) e due per costumi e scenografia di My Fair Lady (1964). Figura poliedrica, egli è stato innanzitutto un fotografo, tra i più grandi e innovativi del Novecento, un costumista, ma anche designer teatrale, illustratore, scrittore e pittore.
Nel documentario del 2017 Love Cecil – mai uscito in sala ma disponibile in DVD per la collana Real Cinema di Feltrinelli e in streaming su NOW e Chili – Lisa Immordino Vreeland ripercorre la vita di Beaton, cercando di tratteggiarne la personalità artistica, caratterizzata da un fervido e inesauribile eclettismo.
Love Cecil: i ritratti del Novecento
A narrare la storia di Beaton è la voce di Rupert Everett che a foto e filmati d’archivio, intervallati da tributi di storici, fotografi e pittori dei nostri giorni (un approccio polifonico meno marcato rispetto a quello adottato da Tornatore nel recente Ennio), sovrappone i pensieri tratti dai diari dell’artista inglese.
Si parte dall’adolescenza, con il suo precoce interesse per gli spettacoli e per la fotografia, da lui vissuta, almeno inizialmente, in tutta l’ambiguità di mezzo pratico-estetico che riproduce la realtà offrendone una visione plastica, un punctum come direbbe Roland Barthes. Solo attraverso gli studi universitari a Cambridge sul Rinascimento e sul teatro, e entrando nella celebre cerchia dandy londinese dei giovani aristocratici, passata alla storia come Bright Young Things, Beaton arriva a definire appieno la sua vocazione fotografica.
Le sue foto agli associati del gruppo (nel 2020 la National Portrait Gallery ha dedicato una mostra a questi scatti) sono la prima testimonianza della sua capacità di creare un’atmosfera nella fotografia, mettendo in scena e plasmando un’idea della persona rappresentata. Una peculiarità che Beaton affina sempre di più e che raggiunge l’apice creativo quando negli Stati Uniti, già assunto dalla rivista Vogue, inizia a fotografare i volti più celebri del cinema hollywoodiano, ormai nel pieno divismo degli anni ’30, da Gary Cooper e Orson Welles, a Judy Garland e Marlene Dietrich, solo per citarne alcuni.
Inseguendo questi intrecci di vicende, che vedono un Beaton progressivamente protagonista dei tempi e legato a personalità importanti dello scenario artistico, il documentario sorvola purtroppo in maniera quasi superficiale su alcuni importanti aspetti concettuali della sua arte, in particolare il citazionismo.
Beaton riusciva a comporre una visione all’interno di una foto perché allineava il presente e il passato, mescolando stili artistici del Rinascimento e del Barocco alla sua contemporaneità estetica, dove trionfavano i giochi di luci e ombre del cinema espressionista tedesco e l’uso costante di specchi e simmetrie perturbanti, quasi ad annunciare il fermento concettuale della categoria psicoanalitica del doppio (Sigmund Freud, Otto Rank).
L’intento della regista del resto è quello di delineare, oltre ai meriti artistici, anche la complessità del carattere di Beaton, mosso dalla tenace ambizione di far parte del mondo altolocato – nel documentario viene definito un “arrampicatore sociale” e, in un filmato d’epoca, Truman Capote e Diana Vreeland si mostrano sottilmente sarcastici su quest’aspetto –, abitata a sua volta da atteggiamenti snob e narcisisti.
Un tratto caratteriale quest’ultimo che emerge quando, illustrando un articolo su Vogue, Beaton inserirà slogan antisemiti, obbligando l’editore Condé Nast a licenziarlo. L’inglese, come spiegato nel film, non era antisemita; la sua eccessiva tracotanza creativa lo portò però a sottovalutare la portata storico-ideologica di quegli slogan. Il periodo post- licenziamento, con conseguente ostracismo, vide ufficialmente la fine quando fu chiamato a Buckingham Palace per fotografare la famiglia reale. Il suo rapporto con la monarchia fu in seguito costante e proficuo; la stessa regina Elisabetta, nel 1953, lo volle come fotografo ufficiale il giorno dell’incoronazione.
La sua riabilitazione aveva però già preso il via quando, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Beaton diventò reporter per il Ministero dell’informazione britannico, sottoponendosi a viaggi estenuanti (Birmania, Egitto, Cina) per testimoniare la violenza della guerra. In particolare la foto della piccola Eileen Dunne, ricoverata in ospedale dopo il raid tedesco su Londra del 1940, pubblicata sulla copertina di Life, ebbe un impatto tale da convincere definitivamente l’opinione pubblica americana dell’opportunità di entrare in guerra. Anche da corrispondente di guerra, Beaton non rinuncia alla visione estetica: le sue foto non sono solo di ordine informativo-giornalistico ma riportano lo spirito cameratesco tra soldati e le immagini vive di luoghi distanti dal cuore dell’Europa.
Le stanze della storia
Nel documentario, non mancano infine note, mai troppo insistite, sul rapporto di Beaton con il padre e il fratello suicida, sull’amore non corrisposto per il collezionista Peter Watson e sulla chiacchierata attrazione reciproca con Greta Garbo. Interessanti e venate di un’intensa nostalgia anche le parti relative alle residenze del fotografo immerse nella campagna inglese, prima a Ashcombe House – luogo di feste e eccessi che ospitò anche Salvador Dalí e Pavel Tchelitchew – e poi a Reddish House, residenza della maturità e vecchiaia.
L’approdo di Beaton come costumista per le grandi produzioni hollywoodiane viene valutato piuttosto dettagliatamente, sia sottolineando la sua sofisticata poetica cromatica nell’attenta ricostruzione storica di scenografia e costumi, sia menzionando, sul versante relazionale, la sua aperta antipatia, peraltro corrisposta, per George Cukor, regista di My Fair Lady. In chiusura un accenno anche alle sue foto dei volti nuovi del cinema americano (Marlon Brando e Marylin Monroe) e alla sua attenzione per i nuovi fenomeni artistici e musicali (Andy Warhol e Mick Jagger).
Lisa Immordino Vreeland, al terzo documentario dopo Diana Vreeland. L’imperatrice della moda (2011), dedicato alla famosa giornalista di cui è nipote acquisita, e Peggy Guggenheim. Art Addict (2015), con Love Cecil offre un ritratto autentico e appassionato di Cecil Beaton. Love Cecil a tratti risente dell’enorme mole di documenti e di personalità del XX secolo con le quali Beaton ha lavorato e intrattenuto rapporti, ma incuriosisce lo spettatore, iniziandolo e motivandolo alla conoscenza di un grande artista, nella cui vita hanno vibrato la Storia e le storie del cinema, dell’arte, del teatro.