Disney ha ormai compreso come capitalizzare i propri franchise con il minimo sforzo: dalle continue diramazioni del Marvel Cinematic Universe alla riproposizione in forma live-action dei grandi classici d’animazione, la compagnia di Topolino & Co. non smette di ottenere grossi guadagni sia sul piccolo che sul grande schermo. Un successo destinato ad espandersi anche nel mondo dello streaming, con il lancio della piattaforma Disney+ che può contare su un catalogo ricchissimo di produzioni originali passate e nuovi titoli in esclusiva assoluta: da noi arriverà soltanto alla fine del prossimo marzo, ma negli Stati Uniti è già stata inaugurata pochi giorni fa con ottimi riscontri e una manciata di film inediti. Tra questi vi è proprio la versione “in carne, ossa e CG” di Lilli e il Vagabondo, moderna e fedele reinterpretazione realizzata con le tecnologie odierne dell’amata pellicola animata del 1955. Il passaggio dalle due alle tre dimensioni è stato indolore o denota invece qualche limite di personalità? Scopriamolo assieme.
La trama di Lilli e il Vagabondo ripercorre abbastanza fedelmente quella dell’originale, con il periodo natalizio a far da ideale e rassicurante sfondo alla vicenda. Siamo nel 1909 e Jim Dear regala all’amata moglie Darling un cucciolo femmina di cocker spaniel americana, chiamato poi dalla coppia Lilli. La cagnolina si affeziona sin da subito ai suoi nuovi padroni, che ricambiano le sue attenzioni nel miglior modo possibile; le cose sono però destinate a cambiare quando la donna rimane incinta e, dopo la nascita del piccolo, Lilli rimane parzialmente in secondo piano. Un giorno l’animale rimane solo in casa con la bisbetica zia di Darling, una signora di mezz’età convinta gattara, la quale ritiene che il pandemonio casalingo combinato dai suoi due perfidi mici sia stato scatenato proprio da Lilli, che così viene portata in un negozio d’animali dove tenta di essere “addomesticata” tramite un castrante modello di collare. La protagonista riesce a fuggire dalla bottega e si addentra nelle strade circostanti, dove viene minacciata da un cane randagio prima che un altro bastardino intervenga in sua difesa: il nome dell’improvvisato eroe è Biagio, e tra i due scocca subito la scintilla. Lilli ha però intenzione di far ritorno alla sua dimora, timorosa che i suoi amici umani la stiano cercando, mentre il Vagabondo è abituato ad una vita all’aria aperta dove trascorrere incredibili avventure giorno dopo giorno. E inoltre il crudele accalappiacani locali è sulle sue tracce…
Formula che vince non si cambia e così, dopo l’adattamento copia-incolla de Il re leone (record d’incassi al box office), ci troviamo di fronte ad un altra trasposizione semplice semplice, che mantiene tutte le adorabili premesse del prototipo per raccontarci una love-story canina dal sapore indimenticabile. La tecnologia ha fatto passi da gigante nella gestione degli animali parlanti, e qui i due protagonisti a quattro zampe sfruttano al meglio il labiale dei relativi doppiatori d’eccellenza (Tessa Thompson per lei, Justin Theroux per lui): tolte le sequenze in cui sono stati aggiunti digitalmente i dialoghi, Lilli e il Vagabondo sono interpretati da cani reali, con “l’interprete” del secondo che è stato salvato dal canile. Non a caso il film porti con sé un preponderante messaggio contro l’abbandono, con un toccante flashback di Biagio che tenta di aprire le coscienze e sensibilizzare a tal riguardo.
I cento minuti di visione ripropongono le scene clou, la spaghettata con bacio su tutte, in maniera tenera e giocosa al contempo, nel tentativo ancora una volta di attirare il pubblico di grandi (nostalgici) e piccini in un vero e proprio passaggio di consegne intergenerazionale, per una storia senza tempo il cui fascino è destinato a non tramontare mai. Lilli e il Vagabondo si adagia furbescamente su tale assioma e il risultato, per quanto gradevole, risulta ovviamente classico e di facile consumo, senza un guizzo che riesca a farne emergere spunti artistici più incisivi. Un paio di sequenze in stile musical di discreta efficacia, in particolare quella con i gatti combina-guai, e la discreta caratterizzazione delle figure secondarie, sempre canine, garantiscono una parziale varietà ad uno svolgimento altrimenti troppo lineare, destinato come ovvio a condurre all’agognato lieto-fine ben conosciuto da tutti gli amanti dell’opera originaria. Il risultato finale è un compitino onesto e gradevole al quale però manca quel pizzico di vibrante magia che caratterizzava la fonte d’ispirazione, e il cast umano che fa da contorno alla vicenda principale rimane spaesato come mero elemento di contorno, spesso impalpabile anche nei ruoli che avrebbero dovuto avere un maggior impatto come quello del cocciuto accalappiacani, una nemesi caricaturale e banale privata di ulteriori sfumature di sorta.
Voto Autore: [usr 3]