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Il re, la recensione del film originale Netflix

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Il primo ad adattare per il cinema l’omonima opera di William Shakespeare fu Laurence Olivier, uno degli attori di cinema e teatro universalmente considerato tra i più grandi di sempre: il suo Enrico V (1944) fu una perfetta trasposizione del bardo d’Albione. A quarantacinque anni di distanza l’erede designato di Olivier, ossia Kenneth Branagh, esordisce dietro la macchina da presa e si ritaglia il ruolo da protagonista (proprio come il suo maestro) in un nuova, apprezzata, versione per il grande schermo. Con due prototipi di tale livello non era certo semplice l’impresa di David Michôd, regista australiano autore di opere riuscite come Animal Kingdom (2010) e il post-apocalittico The Rover (2014) e altre più sbilenche quali War Machine (2017), che con questa produzione in esclusiva per Netflix ha trovato la giusta chiave di lettura. Il re si rivela infatti un film solido e convincente, una perfetta rappresentazione in costume di un’opera immortale della letteratura.

Il re

Il re vede per protagonista il giovane Hal, principe di Galles e figlio maggiore del re Enrico IV d’Inghilterra. Il ragazzo conduce una vita dissoluta lontano dai fasti di corte e ha un pessimo rapporto con la figura paterna, tanto che questa sceglie come erede al trono suo fratello minore Thomas. Quando il sovrano, odiato da gran parte della popolazione e considerato da molti stessi nobili come la rovina del Paese per via delle numerose guerre da lui iniziate, si trova sul letto di morte e Thomas perde la vita in battaglia, Hal viene incoronato re con il nome di Enrico V, con tutte le intenzioni di distaccarsi dalle politiche passate e dare inizio ad un regno di pace. Ma quando Luigi, Delfino di Francia, invia a corte come regalo d’incoronazione una pallina quale simbolo d’offesa e al di là della Manica si alzano venti belligeri, Enrico V è costretto a prendere drastiche decisioni, spinto dai suoi più vicini consiglieri. In un contesto di intrighi di corte e giochi di potere, Hal decide di affiancarsi il suo vecchio amico e compagno di sbronze John Falstaff, l’unico del quale sente di potersi realmente fidare.

Il re

L’ascesa al potere e il dramma privato da esso derivante sono i nodi principali della complessa e stratificata narrazione di Il re, opera aspra e cruda dal punto di vista introspettivo nella plasmazione caratteriale del protagonista, costretto dagli eventi a sedere su un trono mai realmente desiderato. Le due ore e mezza di visione sono un’ode all’arte della mistificazione, indirizzata attraverso raffinati giochi di sceneggiatura su un colpo di scena finale che rivoluziona quanto visto in precedenza e apre nuove ombre sul percorso appena compiuto. Il puro inferno personale si alterna così alle fasi salienti di una guerra mai realmente agognata, in una partita di attese dove ogni pedina gioca un ruolo fondamentale ai fini degli eventi. Se la prima metà è una sorta di aspro percorso di formazione, la seconda trova nella furia della battaglia una gustosa verve spettacolare guardanti a classici più o meno recenti: da un discorso che riporta alla mente per toni e dinamiche quello pronunciato da William Wallace nel seminale Braveheart – Cuore impavido (1995) fino alla opprimente e brutale claustrofobia degli scontri armati più cruenti, memori di un episodio cult di Game of Thrones quale La battaglia dei bastardi, Michôd sa come e dove colpire nella gestione di un sano ed appagante intrattenimento a tema, aiutato in questo da un notevole numero di comparse e da un budget delle grandi occasioni.

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Il re

Dal punto di vista scenografico, sia per ciò che concerne ambientazioni e costumi, Il re si rivela minuzioso e affascinante, con numerose sequenze in magnifici campi larghi e un’insistita attenzione agli elementi naturalistici, veri e propri spettatori co-protagonisti della storia. La stessa colonna sonora di Nicholas Britell, silente e avvolgente accompagnamento, segue nel migliore dei modi i turbamenti emotivi vissuti dal reticente-sovrano, il cui carattere cambia drasticamente nel corso dei sempre più tumultuosi eventi, trasformando i sogni iniziali in una tragica rassegnazione. In questo lo sguardo perennemente afflitto e titubante di Timothée Chalamet è perfetto per rappresentare una figura complessa e ricca di sfumature interiori, con gli occhi del giovane attore che assumono un ruolo fondamentale negli sbalzi passionali del riluttante Enrico V. Il cast d’eccezione trova le altre due punte di diamante in Joel Edgerton (anche co-autore dello script insieme al regista), magnifico interprete di un Falstaff bonario e genuino nonché unica figura completamente positiva del racconto, e in un Robert Pattinson piacevolmente sopra le righe nei panni del crudele delfino di Francia. Per un’opera che avvince e convince e rende onore alla fonte originaria con rispetto e personalità.

Voto Autore: [usr 4,5]

Maurizio Encari
Maurizio Encari
Appassionato di cinema fin dalla più tenera età, cresciuto coi classici hollywoodiani e indagato, con il trascorrere degli anni, nella realtà cinematografiche più sconosciute e di nicchia. Amante della Settima arte senza limiti di luogo o di tempo, sono attivo nel settore della critica di settore da quasi quindici anni, dopo una precedente esperienza nell'ambito di quella musicale.

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