HomeCapolavoriHana-bi: Fiori di Fuoco: il capolavoro di Takeshi Kitano

Hana-bi: Fiori di Fuoco: il capolavoro di Takeshi Kitano

"Hana-bi" la storia del dolente amore di un uomo e di sua moglie malata terminale e di un viaggio intrapreso per salutare la vita. Ma è anche la storia di un feroce regolamento di conti con una banda yakuza, di coloratissimi fiori dipinti su tela, e di un aquilone incoraggiato dal vento

Le acque placide di un lago, la cima innevata del monte Fuji e folli esplosioni di brutalità: spietate bacchette da sushi conficcate negli occhi, sangue che schizza, spari a ripetizione. Il cinema di Takeshi Kitano è contrasto: il montaggio frantuma il racconto e l’azione frenetica diviene contemplazione statica. “Hana-bi” è la glorificazione della forza poetica dell’antitesi.

È inutile calpestare il sentiero già battuto e agitarsi nella certezza del tracollo. È superfluo vagabondare nell’assenza di una meta ed è un vero capriccio esplorare quando si è già certi dell’inevitabile sosta. Eppure abbiamo bisogno anche di una certa quantità di cose inutili per restare in equilibrio tra la divina aspirazione all’eternità e l’umana caducità dell’esistenza. “Hana-Bi” è la celebrazione di Takeshi Kitano dell’essenziale leggerezza dell’inutilità. Perché non è mai totalmente inutile continuare a bagnare i fiori già appassiti.

“Hana-Bi” è un film orgogliosamente custodito sotto la coltre della neve che ancora fresca si arrende all’incedere dei passi, un racconto lasciato dissolversi in riva al mare dove l’acqua cancella ogni traccia. Un’opera che sa di bastare a se stessa, che non necessita della consequenzialità cinematograficamente costruita per divenire reale, perché sono le immagini statiche, le sospensioni narrative e i fuori campo a creare straordinari momenti di cinema. Un film che comunica mediante la potenza pittorica e che destruttura l’audiovisivo ricostruendolo per sottrazione, scatenando un’intensità stupefacente: una recitazione rarefatta e stilizzata, un montaggio (curato dallo stesso Kitano) alieno a qualsiasi regola e intere sequenze narrative condensate in poche inquadrature.

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Takeshi Kitano: il comico triste con la pistola

Takeshi Kitano, classe 1947, si afferma negli anni ’70 e ’80 nei ruoli di attore comico, polemico intrattenitore, editorialista politico e autore di una settantina di libri di cui dice di non aver mai scritto una sola parola. Divenuto uno dei personaggi più popolari del mondo dello spettacolo giapponese, giunge alla regia in modo inaspettato subentrando nella direzione di un progetto cinematografico che gli fu presentato come già completo. (Fu il regista Kinji Fukasaku -noto per “Battle Royale”- a rinunciare senza precise spiegazioni).

Kitano mise pesantemente mano al progetto, riordinò le idee, stravolse le intenzioni, fece riscrivere il copione. Il risultato è il suo folgorante esordio alla regia “Violent Cop” (1989). Il suo talento era già tutto lì, rivelato al mondo, fin da subito. Al flop commerciale in patria seguì un grande credito internazionale. Tanto che proprio “Hana-Bi” trionfò al Festival di Venezia, vincendo il Leone d’Oro nel settembre del ’97.

La filmografia di Kitano può essere intesa nel suo complesso come un’opera coesa, fondata sulla dialettica di elementi contrastanti: il gioco e la violenza, l’ingenuità e la ferocia, l’azione e la stasi. Quello Takeshi Kitano è un cinema primordiale e puro. Intenso, violento e poetico, il suo cinema sa lasciarsi sfuggire un sorriso poco prima di morire e raccontare la rinascita fermando il flusso del tempo.

“Hana-Bi” nei suoi 103 minuti ha in sé tutta la violenza espressiva del Kitano precedente e tutta la fame di libertà del Kitano degli anni successivi. Ritroviamo il desiderio di stravolgere lo yakuza-movie di Violent CopBoiling Point e Sonatine, e rintracciamo la dolcezza che sarà de Il silenzio sul mare, il viaggio de L’estate di Kikujiro, e la corrispondenza tra vita e arte di Achille e la tartaruga.

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Hana-bi: fiori, fuoco, sangue e neve

“Hana-Bi” nasce qualche anno dopo all’incidente motociclistico in cui Kitano rischiò di perdere la vita. È in questo film che il regista/attore giapponese torna dietro e davanti la telecamera. La sua sensibilità artistica è rinnovata, rafforzata da un impulso di morte messo a tacere e sostenuto da una rifiorita fascinazione per la vita.


Hana-bi è un gioco tra la vita e la morte: una partita in cui i vincitori non acclamano ma dipingono, e i vinti non disperano ma fanno volare aquiloni. Un film in cui fiori, fuoco, sangue e neve raccontano la sofferta rinascita di un uomo, ma anche del suo creatore.

Hana-bi – Fiori di Fuoco: il capolavoro di Takeshi Kitano

Nishi (Takeshi Kitano) è un uomo duro, di pochi scrupoli e di ancor più scarse parole. È un poliziotto pronto a scaricare un intero caricatore sul corpo di un cadavere. Ma i suoi occhi colmi di rabbia ora sono rimasti intrappolati in un volto indolente, una maschera impassibile, refrattaria ad ogni espressione vitale. La moglie (Kayoko Kishimoto) è malata terminale di leucemia, la figlioletta è morta in un incidente e il collega Horibe (Ren Ōsugi) è costretto su di una sedia a rotelle a seguito di una sparatoria, mentre un altro agente è morto in uno scontro a fuoco.

Lo perseguitano i sensi di colpa: non riesce a parlare con la moglie sapendola così vicina alla fine, non era accanto al collega Horibe durante lo scontro a fuoco in cui ha perso l’uso delle gambe, ha assistito alla morte del collega impotente e immobile. Le colpe si affollano e il rimorso lo assale.

Nishi non sa più sopportare l’attesa della morte, né l’impossibilità di agire. Decide di rivolgersi alla yakuza per ottenere un prestito. Ottenuto il denaro aiuta la giovane vedova del poliziotto e acquista album da disegno, colori, pennelli e tele per l’amico rimasto paralizzato. Avrebbe sempre voluto dipingere, ora deve essergli offerto un nuovo modo per approcciarsi alla vita.

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E così mentre Horibe dipinge di animali con la testa di fiore, una natura rigogliosa, i ciliegi fioriti e la neve appena caduta, Nishi è messo alle strette dai criminali della yakuza.

Per ripagare i suoi debiti realizzerà una rapina in banca (la sequenza è straniante e mostrata mediante la registrazione delle camere di sorveglianza). Poi partirà con la moglie per un ultimo viaggio lungo il Giappone, attraversando tutte le stagioni. La fioritura dei ciliegi in primavera, i fuochi d’artificio d’estate, il vento d’autunno sulla spiaggia, il monte Fuji con la cima innevata durante l’inverno.

Aria, terra, fuoco e acqua: gli occhi della natura osservano l’amore dolente di Nishi e sua moglie, tra parole che non hanno il bisogno di essere pronunciate e silenzi che perdono la paura di non essere prontamente riempiti. Un viaggio che assomiglia ad una fuga, ma senza fretta alcuna.

Una favola senza lieto fine né morale, in cui una fotografia scattata nel momento sbagliato sa rimettere ogni cosa al giusto posto.

Hana-bi – Fiori di Fuoco: il capolavoro di Takeshi Kitano

Hana-bi la corrispondenza tra la vita e l’arte

“Hana-Bi” è un film che si protegge dallo sgarbo della memoria con estrema gelosia. Le immagine offerte dalla regia di Kitano sono preziose, intense e bellissime. Gli oggetti si stagliano dinanzi ai nostri occhi, cromaticamente definiti, tangibili.

Fiori coloratissimi in primo piano in tutta la loro rigogliosa materialità che si traducono su tela. Horibe, prigioniero solitario di un corpo inedito, ancorato in riva al mare mentre le ruote della sua sedia affondano nella sabbia bagnata, trova il suo riscatto nella pittura.

Le immagini delle sue tele invadono lo schermo. (Sono anch’esse opera di Kitano, grandissimo appassionato di pittura. Non a caso tra gli artisti più amati Kitano cita Picasso che “ha provato a mettere la tridimensionalità del mondo nella bidimensionalità del quadro”, operazione che ha molto in comune con il rapporto tra cinema e pittura). Sono immagini che esprimono un desiderio di vita incredibile, nonostante tutto. L’arte là dove le parole non servono più, l’arte che trasforma la vita a tal punto da rendere pronti ad abbandonarla.

L’antitesi è la cifra stilistica di “Hana-Bi”. Il contrasto è già presente nel titolo, nel voler mettere insieme gli ideogrammi di fiore e di fuoco: la rinascita della natura ammirata e poi dipinta, e gli spari delle pistole e il rosso del sangue. Nel mondo di Kitano è il silenzio a diventare protagonista, la parola è cromatica, materica, è il segno sulla tela. Il suono è quello del mare, del vento, degli spari, del traffico; nulla è appositamente costruito. Tutto pre-esiste ai nostri personaggi perché in fondo a loro quel mondo sembra non appartenere.

Hana-bi – Fiori di Fuoco: il capolavoro di Takeshi Kitano

Hana-bi: la parola al fuori campo

La violenza è ciò che resta di un’umanità perduta, l’unico modo per rispondere ai soprusi, agli idioti e alle stupide regole d’onore di un mondo criminale ridotto a stereotipo. E alla ferocia che si incrocia nelle strade si contrappone la poesia di un leone con la testa di girasole o di una donna giglio nel suo elegante kimono. Arte ipnotica, che dissolve la sofferenza, che trasforma uno sparo in un fuoco d’artificio.

La telecamera vanta movimenti netti, gioca sulla rotazione (eccezionale la rotazione di 720° sulla neve) per poi assestarsi su inquadrature statiche. Dettagli d’immagine e frammentarietà narrativa sono usati per evidenziare solo l’essenziale al gioco poetico dei contrasti, affidando al fuori campo il compito di attribuire significato a ciò che si sceglie di mostrare. Takeshi Kitano celebra in modo eccezionale il potere dell’invisibile, del non mostrato, nell’ultima scena, affidandosi al solo elemento sonoro, ad una colonna sonora struggente, in uno dei suoi finali più belli e tragici.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Hana-Bi" è un film doloroso, poetico e furibondo. Realizzato con una qualità e una cura dell'immagine straordinaria, ha un'idea di cinema rigorosa e destabilizzante. Il film è stato premiato a Venezia nel 1997 con il Leone d'oro ed è riconosciuto come la pellicola che diede rinomanza internazionale a Takeshi Kitano. Kitano ha scritto, diretto, interpretato, montato un capolavoro che una volta visto non può più essere dimenticato.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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